Tutta la nostra vita può essere illuminata dal percorso di preghiera di Mosè che impara a pregare e ne fa esercizio. Vale anche per noi, in un progressivo passaggio di maturazione.
Mosè è presentato come il modello dell’intercessore. Lo sentiamo già per questo molto vicino a noi, come pastori della Chiesa. Ma la sua preghiera è un cammino, un itinerario. L’ho sentito molto significativo per questo periodo che stiamo vivendo, sebbene non si possano o forse non si debbano accostare in maniera eccessivamente analogica le varie fasi della vita di Mosè alle tappe di questa pandemia. Piuttosto, tutta la nostra vita può essere illuminata dal percorso di preghiera di Mosè, che impara a pregare e ne fa esercizio. Vale anche per noi, in un progressivo passaggio di maturazione.
Il roveto ardente (Es 3, 1-6)
Immagine per eccellenza della vita contemplativa, nasce di fatto da un fallimento. Mosè si trova nel deserto perché fugge, dopo aver voluto affermare se stesso con la forza e con l’arroganza. Pur a fin di bene, Mosè in Egitto dice: ‘questo sono io’… ma lo fa con la violenza e l’intolleranza. Fino a che non trova un potere più forte di lui, e tutto crolla. Ramingo nel deserto, si ricostruisce una vita, ma in realtà gli rimane dentro la grande domanda: ‘Chi sono io veramente?’.
Forse abbiamo vissuto qualcosa di simile nella sorpresa del primo lockdown, nella chiusura improvvisa e radicale che ci ha spiazzati. Costretti a lasciare le abituali azioni e i tradizionali servizi, che ci davano una identità – a volte non troppo riflettuta, altre volte persino affermata con violenza: ‘questo sono io, questi siamo noi…’ – , ci siamo trovati davanti alla crudele ma necessaria domanda: ‘chi sono io veramente?’.
Ciò che salva Mosè è il non rannicchiarsi in se stesso a cercare la risposta. Ma si spinge oltre, il che vuol dire dentro quel deserto in maniera ancor più radicale. Fugge dal suo passato violento, ma non dal travaglio della domanda, dall’aridità del dubbio: lascia emergere la sete. Mosè va oltre, conducendo le proprie pecore, almeno fin dove lo seguono, ed esplorando terreni nuovi, sconosciuti, fuori dai confini consueti, persino rischiosi. È il desiderio di un di più, è la ricerca di Dio nascosta nell’ansia e nell’angoscia di una vita che non si accontenta.
Lì nasce la preghiera, che è movimento di Dio verso di lui. Dio lo chiama. Ma Mosè risponde perché la roccia del suo cuore è già assetata, pronta a squarciarsi. La prima pietra che si spacca non è quella di Massa e Meriba (Es 17, 1-7), ma quella del suo cuore, da cui piano piano zampillerà acqua di vita.
Il nostro primo lockdown ha forse avuto i connotati di un deserto, e ci siamo ritrovati con la paura ma anche con l’impotenza. Che cosa abbiamo fatto? Che cosa facciamo di fronte all’aridità di una consuetudine frustrata, di una prassi abituale scardinata? Abbiamo riaffermato il nostro ‘io’ ripetendo, pur con i mezzi tecnologici, prassi abituali che ci davano sicurezza? Abbiamo preferito rannicchiarci dentro le nostre paure e le nostre frustrazioni, sostenuti dalla ‘buona scusa’ di dover difendere la salute? O abbiamo rischiato l’incontro con un Oltre, aprendoci alla domanda che soggiace a un dialogo autentico con Dio: ‘chi sono io’, e quindi ‘chi sei tu’?
Il Sinai (Es 19, 1-8)
Dio rivela a Mosè il proprio nome (Es 3, 13-15), e così svela al suo servo (cfr. Dt 34,5) e amico (cfr. Es 33,11) la sua identità. Nella preghiera, Mosè impara piano piano a capire chi egli è, perché noi siamo noi stessi soltanto in relazione con Dio, e situandoci davanti a Lui al giusto posto. Mosè è “l’uomo di fiducia di Dio” (Nm 12,7) per eccellenza, e la confidenza con cui intesse un rapporto di dialogo con Yahvè è addirittura scandalosa. Le obiezioni alla chiamata, la spontaneità del dialogo, addirittura la faccia tosta dell’intercessione, o persino dello ‘scarica barili’ (‘è il TUO popolo, quello che si lamenta continuamente’ – cfr. Es 32, 11-14): si mostra qui una relazione capace di far emergere la personalità dell’orante in tutte le sue sfaccettature. La preghiera fa verità di sé, oltre che di Dio.
Perché con Dio si può parlare di tutto, e si può evitare di spendere inutili energie a nascondersi dietro le maschere della compiacenza. A volte capita che le persone chiedano cosa fare con le distrazioni nella preghiera… e me lo chiedo pure io. Nel tempo della pandemia, è difficile pregare sulla Parola senza essere attraversato continuamente da preoccupazioni e timori. Che certamente riguardano gli altri, ma hanno radice in me stesso. Devo essere sincero: la morte fa paura a me, perché è la mia morte in ballo. Mosè è terrorizzato dal mettersi in gioco perché teme le brutte figure, teme per la propria vita, teme il fallimento… Così sono io, così forse siamo noi. Ma a Dio interessa tutto questo, e Lui non si tira indietro dal dialogo. Anzi, si mette in gioco con tutto se stesso.
Il Sinai, l’alto monte, è lo scenario per eccellenza del dialogo tra i due: Dio fa accedere a sé l’uomo credente, permettendogli di varcare soglie inaudite, addirittura svelando la propria gloria (cfr. Es 33, 18-23; 34, 5-9). Vi è un paradosso incredibile nel dialogo orante di Mosè con Yahvè: si ha la sensazione che per molti tratti sia piuttosto Dio stesso che prega e invoca Mosè perché gli dia una mano. Non solo: è Dio che consegna a Mosè il meglio di sé, dal suo popolo (di cui è tanto geloso) alle Leggi che Egli stesso ha scritto e impresso nel cuore dell’uomo. Dio svela a Mosè i propri segreti, affida persino se stesso (il Nome). Proprio quando Mosè si mostra tanto titubante (balbuziente) e fragile. La forza di Mosè non viene dai propri talenti, ma da questo rapporto di fiducia reciproca (!) che Dio instaura progressivamente con lui.
Chissà, nell’incertezza della quarantena, e soprattutto della fase 2, in cui non si capiva (e non si capisce) bene cosa si possa fare e cosa no, cosa siamo in grado di fare e cosa no, dove abbiamo imparato ad appoggiare la nostra sicurezza e la nostra fiducia. Abbiamo cercato garanzie e assicurazioni, oppure ci siamo allenati al dialogo paziente e profondo con Dio, che sta immischiato nelle nostre vicende e vuole consegnarci le tracce della Sua presenza in ogni istante? Chissà se abbiamo imparato a riconoscere la gloria di Dio anche nella provvisorietà dell’esistenza…
Amalek (Es 17, 8-13)
Ho insistito molto sulla relazione personale di Mosè con Dio, perché non può esistere preghiera di intercessione se non vi è questo atteggiamento radicale di una fiducia vitale nei riguardi di Colui a cui ci si rivolge. Nella guerra contro Amalek, Mosè mette in campo tutte le risorse umane disponibili (“Scegli per noi alcuni uomini…” – v. 9 – dice a Giosuè, il capo combattente), ma poi si mette in gioco con la preghiera. Nulla di magico, nulla di superstizioso, ma una incrollabile certezza nel fatto che Dio ha a che fare con le nostre vicende. La vita è una battaglia, ma abbiamo un buon alleato: questo sembra dire Mosè con le mani alzate sulla cima del colle, “con in mano il bastone di Dio” (v. 9).
Nella fase in cui ci troviamo ora, sembra che divenga sempre più importante la preghiera per gli altri. Proprio ora che è passata la poesia dell’eroismo (pensiamo a infermieri e medici osannati nei mesi del lockdown e ora ancora in prima linea senza il sostegno della retroguardia) ed è più evidente la contraddizione della vita, che non pare proprio assicurare che “ne usciremo migliori”, prendersi cura degli altri con la preghiera pare urgente più che mai. Una preghiera gratuita, non misurata sui risultati verificabili.
La preghiera di intercessione di Mosè è un alto e basso di successo e di fatica, di grinta e di stanchezza. Le mani stanno su, poi cadono, come i cuori, a volte animati e carichi, altre volte abbattuti e tristi, magari per delle notizie che ci toccano da vicino (perché restiamo uomini, pur essendo pastori… anzi, speriamo più uomini, perché pastori!). La preghiera di intercessione non è la bacchetta magica di Harry Potter, ma una potente calamita che aiuta a spostare lo sguardo verso “le cose di lassù”, per renderci conto – e aiutare a farlo – che ciò che più conta è oltre. Cioè più in profondità.
Le mani alzate di Mosè sono annuncio delle braccia aperte di Gesù sulla croce. Il che vuol dire che la nostra preghiera per gli altri è icona dell’offerta della nostra vita, è sostegno al nostro donarci ogni giorno nelle piccole cose della nostra missione, è un costante spostamento del baricentro dalle ansie del nostro ‘io’ all’accorgerci di chi sta peggio di noi e non ha nessuno che se ne accorga.
Non è un compito facile. Per questo, esso è più che mai comunitario. Aronne e Cur aiutano Mosè a pregare. Questo stiamo facendo anche noi in questi incontri. Chissà che non ci sia, dentro la situazione difficile che stiamo vivendo, una rinnovata e poderosa chiamata a riscoprire e rinnovare la dimensione comunitaria del nostro ministero. Gratuità e unità: sembrano i tratti più significativi della preghiera di intercessione, che rivolgendo il nostro sguardo ai fratelli (quelli che ricordiamo e quelli con cui ricordiamo) ci permette di non dimenticare che Dio è sempre Padre “nostro”, e mai solamente Padre “mio”.
Testimoni è una rivista mensile, del Centro Editoriale Dehoniano, con sede in Italia, a Bologna. La sua tiratura attuale è di circa 4.000 copie. Essa è anche online.
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