«Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà di partenze» (Francesco in Patris corde).
Nell’anno dedicato a san Giuseppe (8 dicembre 2020 – 8 dicembre 2021) si rafforza una attenzione verso il padre putativo di Gesù in un contesto culturale in cui la domanda sulla paternità si rinnova in maniera significativa.
Il papa scrive nella lettera apostolica Patris corde: «Padri non si nasce lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti. Nella società del nostro tempo spesso i figli sembrano essere orfani di padre».
La devozione a san Giuseppe è piuttosto tardiva sia in Oriente che in Occidente e la Chiesa che ha “ricollocato” in senso dogmatico e biblico la figura di Maria è consapevole di quanto scriveva K. Barth in Esquisse d’une dogmatique (1947): «L’uomo Gesù non ha un padre. Il suo concepimento non segue la legge comune. La sua esistenza comincia con una libera decisione di Dio. Essa procede dalla libertà che caratterizza l’unità fra Padre e Figli con il legame di Amore, cioè con lo Spirito Santo. È il luogo della libertà di Dio, ed è da questa libertà di Dio che procede l’esistenza dell’uomo Gesù Cristo».
Ma la centralità di Dio e di Gesù non rimuove le mediazioni umane, né l’intelligenza spirituale delle devozioni.
Padre, in che senso?
A 150 anni della proclamazione di Pio IX di san Giuseppe come patrono della Chiesa cattolica (8 dicembre 1870), la decisione di papa Francesco di celebrare l’anno di san Giuseppe è affidata alla lettera apostolica, ma anche ad altre decisioni relative alle indulgenze e alla introduzione in tutti i canoni eucaristici della citazione del santo accanto alla Vergine.
Nelle litanie di san Giuseppe sono introdotte nuove invocazioni: custode del Redentore, servo di Cristo, ministro della salvezza, sostegno nelle difficoltà, patrono degli esuli degli afflitti, dei poveri. Non numerose, ma neppure ignorabili sono le iniziative comuni di 16 famiglie religiose ispirate da san Giuseppe in ordine alla celebrazione dell’anno e le attività pastorali dei vescovi italiani, francesi e polacchi.
Nel Direttorio su pietà popolare e liturgia (2002) si scrive: «Lungo i secoli, soprattutto i recenti, la riflessione ecclesiale ha messo in luce le virtù di san Giuseppe, tra le quali rifulgono: la fede, che in lui si tradusse in adesione piena e coraggiosa, al progetto salvifico di Dio; l’obbedienza solerte e silenziosa alle manifestazioni della sua volontà; l’amore e l’osservanza fedele della legge, la pietà sincera, la fortezza nelle prove; l’amore verginale verso Maria, il doveroso esercizio della paternità, il nascondimento operoso» (n. 219).
In tale contesto si può segnalare un libro edito come quaderno della Nouvelle revue théologique che raccoglie cinque saggi apparsi sulla rivista dal 1953 al 2013, col titolo Saint Joseph. Théologie de la paternité (Paris, 2021). Gli autori sono: H. Rondet, X. Léon-Dufour, A. de Lamarzelle, P. Grelot, P. Piret. Riprendo alcune considerazioni sulla storia della devozione e i suoi riferimenti biblici.
La Scrittura e gli apocrifi
La Scrittura traccia con assoluta sobrietà la figura di Giuseppe, ma il personaggio è assolutamente reale, per nulla inventato o immaginario. È un artigiano conosciuto, da tutti additato come padre di Gesù. I vangeli apocrifi si sono applicati ad arricchire le scarse note della Scrittura.
In particolare, il Protovangelo di Giacomo che racconta ampiamente del matrimonio con Maria e che impone per i secoli successivi l’immagine di Giuseppe come un anziano, vedovo e con altri figli. Nella tradizione patristica il suo è un ruolo secondario, ma si afferma la sua verginità e, per la sua funzione di nutrizio ed educatore, si candidata a protettore dell’intera Chiesa. Appaiono nuovi apocrifi (Vangelo dell’infanzia, Storia di Giuseppe il carpentiere, Vangelo della natività) che arricchiscono le leggende come lo sposalizio avvenuto a 89 anni (morto poi a 110 anni), la presenza di figli dal primo matrimonio, l’accompagnamento degli angeli all’anima di Giuseppe verso il cielo.
La devozione popolare comincia a svilupparsi in Oriente non prima del nono secolo e in Occidente dopo il decimo. Anche se accennato da Ilario di Poitier, Ambrogio, Crisostomo e Agostino (dal 300 al 500 d.c.) una attenzione specifica si nota solo a partire da san Bernardo e dalla pseudo Bonaventura. Per san Tommaso la santità di Giuseppe è legata al suo ruolo nel disegno di Dio e nell’economia della salvezza. Più efficace in ordine alla diffusione della devozione, è stata l’arte, che, a partire dal XV secolo, traduce in immagini gli autori spirituali come Ludolfo (il certosino).
Devozione tardiva
La pietà popolare prende vigore dal XV secolo. I suoi promotori sono Bernardino da Siena, Vincenzo Ferrier, Pierre d’Ailly, Gerson (cancelliere). Quest’ultimo pronuncia un celebre sermone al concilio di Costanza (1412).
Ma è la polemica anti-Riforma che sviluppa i primi trattati, fra cui Isidoro Isolani (Summa dei doni di san Giuseppe). Fra i gesuiti si possono ricordare i padri Coton, Binet, Barry e, soprattutto, Moralés che discute le opinioni teologiche sui vari temi relativi a Giuseppe. Da santa Teresa a Pietro d’Alcantara, da Francesco di Sales a Olier, a Vincenzo de Paoli, il culto a san Giuseppe entra con forza nei libri spirituali. Si devono citare anche i celebri panegirici di Bossuet.
Un cambiamento non minore è introdotto dal Rinascimento che, con il suo spirito critico, prende di petto la questione dell’età di Giuseppe al momento del matrimonio e le rappresentazioni consolidate, come l’asino che accompagna la fuga in Egitto. La riuscita artistica più efficace del rinnovamento la si constata nei dipinti di La Tour.
Gerson aveva chiesto l’istituzione di una festa liturgica per san Giuseppe, e questo avviene con Sisto IV nel 1481, fissandola al 19 di marzo. Innocenzo VIII la eleva di ruolo e con Gregorio XV diventa festa di precetto. Nel 1714 Clemente XI compone un nuovo ufficio. A lungo dimenticato san Giuseppe è da allora festeggiato nella Chiesa universale. Ma la tardiva introduzione nella liturgia rilanciava molte domande in ordine alla sua presenza nel canone eucaristico, nelle litanie e nel posto da collocarlo (prima o dopo i martiri, prima o dopo il Battista).
È Prospero Lambertini (Benedetto XIV) a collocare teologicamente Giuseppe. Esclude che in lui ci sia la santificazione in utero matris, ma riconosce il suo ruolo nel disegno di Dio e mostra la sua dignità che lo colloca prima dei confessori, dei martiri e degli apostoli. L’8 dicembre 1870 la sacra Congregazione dei riti proclama solennemente san Giuseppe, patrono della Chiesa universale.
Economia di Dio
Commentando Mt 1,18-25 (Giuseppe assume la paternità legale di Gesù) Xavier Leon-Dufour scrive: «Giuseppe si mostra giusto non perché osserva la legge che autorizza il divorzio in caso di adulterio, né perché si mostra benevolo, né in ragione della giustizia dovuta ad una innocente, ma (la sua resistenza) è motivata dal non voler farsi passare per il padre dell’infante divino.
Se ha timore di prendere con sé Maria sua sposa non è per un motivo profano; è per il fatto che lui, come dice espressamente Eusebio, riconosce una economia superiore a quella del matrimonio che lui perseguiva. Il Signore ha modificato il suo disegno su di lui: lo rende degno di assicurare l’avvenire del suo eletto. Giuseppe si ritira, avendo cura, nella delicatezza della sua giustizia verso Dio, di non “divulgare” il mistero divino di Maria. Inutile cercare come realizzare il suo proposito; sono dettagli superflui per l’evangelista.
Questo giusto è collocato dagli eventi al di sopra del piano legale… (il testo) mostra che Giuseppe non è solo un modello di virtù, ma è l’uomo che gioca un ruolo indispensabile nell’economia della salvezza».
Pierre Grelot, commentando Gv 6, 42-43 («Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire “sono disceso dal cielo”?») scrive: «Per Gesù la relazione con Giuseppe e con Maria fu essenziale perché egli divenisse un uomo adulto. Quando si riflette teologicamente sull’incarnazione del figlio di Dio, si dimentica frequentemente che egli non fu, umanamente parlando, un adulto già da subito: egli cresceva in saggezza, taglia e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini.
Crescita morale, crescita fisica, crescita spirituale: le tre cose assieme, nota Luca. Non è necessario riconoscere un argomento contrario nella comunicazione delle perfezioni divine a Gesù – nel linguaggio teologico si chiama “comunicazione degli idiomi” – per immaginare Gesù come un adulto già fatto che, fin dalla nascita avrebbe goduto della perfezione universale in tutti gli ambiti della vita psicologica. Non sarebbe stato un uomo che in apparenza, come già sostenevano i docetisti».
Lo scarto
Agnés de Lamarzelle legge in parallelo Genesi 1 e 2 con Mt 1,18-25. Come la storia della creazione conosce una interruzione al momento dell’apparire dell’uomo, così la genealogia di Gesù affronta uno scarto nel momento in cui assicura la discendenza davidica del Cristo, passando dal genere della genealogia a quello dell’annuncio.
Come assicurare la discendenza davidica di Gesù, dal momento che il concepimento interessa solo Maria? Come conciliare il mancato intervento maschile con l’appartenenza legale al lignaggio davidico? Giuseppe sa di non essere il padre biologico. La sua giustizia consiste nello stare nel proprio posto.
«Tutto orientato verso il compimento della volontà di Dio egli accetta di non comprendere il mistero che lo tocca da vicino. Agisce in funzione di quello che sa, decidendo di ripudiarla in segreto. Non è il padre e non può rivestire questo ruolo per il bambino. Si separa dalla promessa, senza attirare l’obbrobrio su Maria, di cui conosce che mai dispiacerebbe a Dio».
Il suo essere giusto minaccia di impedire il progetto di Dio. Davanti a una situazione umanamente insolubile interviene l’Angelo per chiamare Giuseppe al duplice ruolo: prendere in casa Maria e dare il nome al bambino, radicando Gesù nel solco davidico. Rinuncia alla paternità fisica per partecipare al mistero dell’incarnazione redentrice, lasciando tutto lo spazio a Dio. Solo Maria sarà la madre secondo la carne, ma tocca a Giuseppe lanciare un ponte fra i due testamenti, ancorando il Salvatore nel lignaggio davidico.
Il torpore mistico da cui si sveglia Giuseppe richiama il torpore di Adamo nel momento della nascita di Eva. Giuseppe «chiamato alla straordinaria missione di essere padre del Figlio del Padre, permette all’Emmanuele (di innestarsi in Davide e) di essere con noi: con la sua sposa, con il popolo che l’attendeva, con tutti gli uomini che accettano di essere con Lui. A cominciare dal lettore che entra in questo “noi” che lo chiama a vivere l’alleanza».
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