21 novembre 2021
21 nov 2021

Bielorussia-Polonia: l’ombra dei genocidi

L’ Iraq vuol riportare ‘a casa’ i suoi cittadini disponibili a rientrare dalla Bielorussia, dopo che l’Iraq li aveva cinicamente raccolti, caricati sugli aerei e scaricati nelle foreste, per andare ad ‘esplodere’ contro la Polonia. Il primo volo è stato annunciato per il 18 novembre. Chi sono queste persone, usate come bombe umane? Come e perché si sono lasciate usare in questo modo?

di  Riccardo Cristiano
Settimananews

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Ora l’Iraq vuol riportare ‘a casa’ i suoi cittadini disponibili a rientrare dalla Bielorussia, dopo che questa li aveva cinicamente raccolti, caricati sugli aerei e scaricati nelle foreste, per andare ad ‘esplodere’ contro la Polonia. Il primo volo è stato annunciato per il 18 novembre. Si calcola che alcune centinaia di persone abbiano accettato l’offerta.

Vengono da sé alcune domande in realtà poco battute in questi giorni: chi sono queste persone, usate come bombe umane? Come e perché si sono lasciate usare in questo modo?

Genocidio: i sopravvisuti

Cercando la risposta incapperemo in un interrogativo angoscioso: cosa si fa con chi è sopravvissuto ad un genocidio? Con il termine genocidio ci si riferisce agli “atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Il fatto che ci siano sopravvissuti dunque non vuol dire che non ci si trovi davanti a un genocidio.

E parlare di Bielorussia oggi vuol dire anche parlare di Sinjar, nome della città e della circostante provincia irachena nel nord del Paese, al confine con la Siria, da dove originano numerosi dei profughi oggi al confine tra Bielorussia e Polonia. Sinjar è il territorio da cui provengono gli yazidi oltre a tanti curdi. Come altri yazidi, anche Hassan è stato raggiunto in Bielorussia da giornalisti che cercano testimonianze su quanto vi accade. Ha detto: “Il ritorno delle famiglie dell’Isis dalla Siria per noi è un’enorme preoccupazione”.

Nel suo caso il racconto è stato raccolto dal portale al-Monitor. Ha raccontato le condizioni in cui stava vivendo con la famiglia e descritto la sua esperienza lavorativa: percepiva una retribuzione di sette dollari al giorno come operaio in un’officina di riparazioni automobilistiche. “Ho fatto di tutto per portare la mia famiglia fuori dalla povertà. Purtroppo, non ci sono riuscito”. Acqua potabile e corrente elettrica nella sua casa nel Sinjar erano miraggi. Così a ottobre ha deciso di prendere da solo il primo volo per la Turchia e da lì, ai primi di novembre, ha raggiunto la Bielorussia. Voleva entrare in Europa e mandare i soldi che avrebbe guadagnato ai suoi. Ma “sono tre giorni che non mangio”, ha affermato l’11 novembre.

Il suo racconto fa emergere dunque la parola troppo spesso rimossa e che fa paura. Genocidio.  Ma il nodo che da settimane si sta stringendo al confine ostile tra Bielorussia e Polonia è forse meno stretto di quello che dal 2015 – sotto occhi che non vogliono vedere – si disloca lungo tutta la cosiddetta rotta balcanica? È forse diversa la chiarezza o l’intensità delle immagini da quanto abbiamo già visto, ad esempio, nel 2020, al confine tra Turchia e Grecia?

La Turchia

Avvicinandoci con gli occhi alla singola crisi, ci si potrà dividere tra chi è più toccato dalla insensibilità e chi è più provato dal cinismo: in questo caso l’insensibilità della Polonia e il cinismo della Bielorussia. Ma allargando il campo ottico e guardando le crisi che si susseguono – in diacronia – potremmo notare la centralità di un Paese come la Turchia, vero ‘asse’, non certo virtuoso, di ognuna di queste e sempre con una certa posizione dominante.

Infatti, nel 2015 la Turchia è stata attraversata da centinaia di migliaia di profughi, sino a qualche milione. Ciò ha portato all’accordo dell’Europa con Ankara nel 2016, perché tutti i profughi fossero là trattenuti. Nel 2020 Ankara li ha fomentati a muovere verso la Grecia, fingendo che provenissero dai territori siriani che lo stesso Erdogan stava invece sigillando. Oggi nelle metropoli turche hanno messo radici le centrali organizzate che lucrano sui fuggiaschi che vengono ‘invitati’ dalla Bielorussia. Il terreno da cui partire per lanciare le bombe umane era ed è ben preparato da anni.

Se allarghiamo ulteriormente il nostro campo visivo, osserviamo che il materiale esplosivo viene costantemente fabbricato da ciò che allora dobbiamo chiamare col suo vero nome: genocidio e genocidi, al plurale, con centinaia di migliaia di sopravvissuti, vittime in fuga dalle principali zone in cui i massacri sono stati perpetrati e ancora si stanno perpetrando.

La macchina dei genocidi

In ordine di tempo recente, dapprima osserviamo il genocidio siriano. La Siria è il Paese dal quale il regime di Assad ha deportato milioni di sopravvissuti allo sterminio che lo stesso ha voluto del suo popolo.

Poi osserviamo l’Isis che ha messo in atto, in particolare, la sistematica persecuzione o deportazione dei cristiani e il genocidio degli yazidi nei territori che ha controllato, tanto che l’orrore del genocidio degli yazidi, secondo la prevalente narrazione, ha determinato quell’intervento militare che ora sarebbe stato vinto dalla comunità internazionale.

Le nostre memorie – distratte da anni – sono improvvisamente risvegliate ora dal fatto che molti yazidi stanno arrivando in Bielorussia, unendosi a tanti curdi siriani, testimoni di un altro genocidio ancora: quello avvenuto nella regione appena al di là del confine tra Iraq e Siria, nella città di Afrin, quando è stata invasa dall’esercito turco.

Possiamo contare almeno tre genocidi per una sola crisi contemporanea che coinvolge pure genti afghane e altri numerosi popoli. È giunto dunque il momento di vedere quel che dal 2015 non abbiamo ben visto o non abbiamo voluto vedere, ossia che i sopravvissuti delle guerre e dei genocidi sono ora usati dagli Stati: lanciati, respinti, scacciati e mai considerati come esseri umani!

Il bacino siro-iracheno

L’operazione bielorussa è certamente iniziata dalla scorsa primavera. Tutto è partito dal cuore permanentemente instabile della devastazione siro-irachena. Il consolato bielorusso a Erbil ha facilmente concesso, a chi lo chiedesse, il visto di ingresso per entrare a Minsk, a prezzi contenutissimi.

Mentre le compagnie aeree hanno allestito un curioso giro di voli da tutti gli aeroporti dell’area. Alcuni amici mi hanno assicurato che l’operazione del visto ha funzionato con pochi soldi: 40 dollari in linea di massima. Perciò l’interesse per il viaggio si è presto diffuso a macchia d’olio, coinvolgendo Emirati Arabi Uniti, Libano, Turchia, Siria. Il tutto è ruotato attorno a un tour operator che per 3-4mila dollari organizzava un percorso che spesso prevedeva una tappa di volo in Turchia, quindi l’organizzazione di terra, una volta giunti in Bielorussia, compreso il trasporto sino al limite del confine polacco.

L’amico S. mi assicura di aver contato in un giorno di settembre ben 16 voli charter in partenza dagli scali citati alla volta di Minsk.

Dopo questo, Ankara avrebbe sospeso i voli, così come la compagnia siriana Cham: decisioni giunte appunto a cinque o sei mesi dall’inizio della operazione. Non è certo un motivo di particolare sollievo. Restano ancora loro nei boschi: quelli partiti, ora mezzi assiderati, al punto che vorrebbero tornare indietro. Ci sono inoltre quelli che non sono partiti o che non sono riusciti a partire, magari pronti a farsi caricare da nuovi voli pur di andare via. Forse ignari. Forse semplicemente disperati o animati da una speranza più forte del rischio della vita.

L’inazione della comunità internazionale

Chi si ricordava dunque più degli Yazidi? E dei sopravvissuti di Afrin? Qualche ignaro lettore si sarà dimenticato pensando che, in un modo o nell’altro, qualche dramma si fosse da sé risolto. Invece no. Non è così!

Dalla sconfitta dell’Isis sono passati quattro anni, ad esempio: cosa è stato fatto per chi ha subito quel genocidio? La verità, oggi molto evidente, è che la maggior parte degli yazidi non ha potuto fare ritorno nei loro villaggi di origine: nello Sinjar – città o campagna – non si può vivere.

Le cause dell’instabilità e le trattative in quella regione coinvolgono tutti fuorché gli yazidi stessi. Coinvolgono il limitrofo Kurdistan iracheno, in urto proprio per questi territori con il governo iracheno che si ritiene il vero titolare dell’area, ove vivono anche molti curdi. Coinvolgono il governo turco, che da tempo minaccia di invadere e ovviamente coinvolgono le milizie filoiraniane, estese in ogni angolo dell’area mediorientale.

Tutte queste forze, con opposti obiettivi, sono interessate al territorio, non certo agli yazidi. I loro luoghi di culto, di pellegrinaggio, di nascita, si trovano lì, ma la maggior parte di loro – quattro anni dopo la sconfitta militare del gruppo che li voleva sterminare come infedeli all’islam – ha solo sede nelle tendopoli dell’UNHCR del nord dell’Iraq: unica possibilità di sopravvivenza senza prospettive.

In questi quattro anni tornare nei luoghi d’origine per gli yazidi, come per molti altri, era impossibile, i pochi coraggiosi che, come Hassan, hanno tentato, hanno fallito. Altri, come i curdi, o non possono rientrare o temono nuove operazioni militari turche. Per quanto riguarda i deportati siriani, Amnesty International ha documentato che il loro desiderio di tornare in patria ma pure la previsione di andare incontro a una morte certa. Molti territori limitrofi ad Afrin sono nei mirini della Turchia e del regime di Damasco – sostenuto da Mosca – e infiltrati dalle milizie filoiraniane.

Dalla sconfitta dell’Isis quattro anni sembrano così passati senza passi avanti sostanziali per gli yazidi. Tre anni sono passati dalla conquista turca di Afrin, sei dalla tragedia della valle dell’Oronte in Siria, per il cui esito fu decisivo l’intervento russo: hanno subito l’azione genocida di Assad, come ormai ripetutamente provato. Altri profughi pronti a tutto possono provenire dal Libano, dalla Giordania, dai campi siriani interni, dalla Turchia o da altre zone limitrofe.

Quali risposte politiche?

Dunque, la vera grande domanda che ci dovremmo tutti porre riguarda le risposte politiche internazionali da elaborare ancora per i sopravvissuti a tutti questi genocidi. Consideriamo gli Stati dispotici e ormai falliti che stanno dinanzi: Stati di polizia e governi spietati che sono rimasti al loro posto quali interlocutori dell’Europa che, dal 2015, ha saputo solo avviare la collaborazione ben remunerata con Ankara, pur di non avere a che fare con questi sopravvissuti.

È ben ora – da cittadini italiani ed europei – di cominciare a chiederci se quella scelta sia stata e continui ad essere la strada “giusta”. Davvero i genocidi possono risolversi in politiche di legittimazione dei perpetratori dei massacri e del fastidio – quando non dell’astio – nei confronti dei sopravvissuti? Tutto questo ha preparato e continua a preparare altre tragedie che si impongono, in questi giorni, ai nostri occhi, con immagini crudeli. Rendiamocene ben conto.

Si può davvero emettere un sospiro di sollievo per il rimpatrio di una parte degli iracheni – e forse di altri – già usati come cariche per bombe umane dalla Bielorussia? Decisamente no!

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