Se interpretiamo questo racconto come un brano di cronaca, ci chiediamo come mai Luca lo abbia scritto. Cortese, certo, il gesto di Maria che va a congratularsi con la cugina che ha ricevuto da Dio il sospirato dono della maternità, ma si tratta pur sempre di un episodio marginale; non costituisce una tappa significativa nella vita di Gesù e non rappresenta un punto di riferimento importante per la nostra fede.
Una seconda osservazione: alcuni particolari di questo racconto sono per lo meno strani. Una forte emozione – assicurano le mamme – provoca sensazioni anche nel feto e può stimolare qualche suo movimento; ma come si è potuto stabilire che si è trattato di un sussulto di gioia? Non è facile nemmeno spiegare la fretta di Maria (v.39) di andare a trovare Elisabetta che è al sesto mese di gravidanza. Di solito si dice che è corsa ad aiutare la cugina. Ma si tratta di una spiegazione poco convincente: come poteva una ragazzina di dodici anni (era questa l’età che Maria doveva avere) presumere di sostituirsi ad amiche e parenti esperte e mature che Elisabetta certo aveva ad Ain Karim? Non si capisce poi come mai sia ripartita dopo tre mesi (Lc 1,56), cioè esattamente nel momento del parto, quando la cugina avrebbe avuto maggior bisogno di assistenza.
Una terza osservazione – ed è la più importante: Maria ed Elisabetta, invece di conversare in modo semplice, come avviene tra amiche, si scambiano frasi scelte con cura dalla Bibbia, alludono a episodi e a personaggi dell’AT con una finezza e una competenza davvero impressionanti. Più che una chiacchierata fra donne del popolo pare di trovarsi di fronte ad un dialogo tra due biblisti e biblisti ben preparati.
Facciamo attenzione: il Vangelo non è una raccolta di informazioni, scritte per soddisfare curiosità, ma è un testo di catechesi. Ha lo scopo di alimentare la fede del discepolo e vuole far comprendere chi è Gesù al quale siamo chiamati a dare la nostra adesione. Per cogliere il messaggio è sempre necessario tenere presente il linguaggio usato nel tempo in cui è stato scritto e fare molta attenzione ai riferimenti, a volte espliciti, altre volte un po’ velati, all’AT.
Dopo questa premessa vediamo di capire cosa ci vuole insegnare Luca nel brano di oggi.
Cominciamo dall’annotazione, apparentemente banale e superflua, con cui inizia il racconto: appena entrata nella casa di Zaccaria, Maria salutò Elisabetta (v.40). Si fosse trattato del solito “buon giorno!”, l’evangelista non lo avrebbe sottolineato. Se lo mette in rilievo, vuol dire che per lui questo saluto è significativo e difatti, nel versetto seguente, lo richiama di nuovo: udito il saluto, il Battista sussultò di gioia.
Gli Ebrei di allora come quelli di oggi, quando si incontrano, si rivolgono un solo augurio: Shalòm – Pace. La pace indica il cumulo di beni che Dio ha promesso al suo popolo e che devono concretizzarsi alla venuta del Messia: “Nei suoi giorni – diceva il Salmista – fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna” (Sal 72,7). Il Messia è chiamato dal profeta Isaia il “principe della pace” (Is 9,5).
Sulla bocca di Maria la parola pace è una proclamazione solenne: è l’annuncio che nel mondo è giunto l’atteso Messia e con lui ha avuto inizio il regno di pace di cui hanno parlato i profeti.
Come Maria sulle montagne della Giudea, come gli angeli – che a Betlemme hanno cantato: “Pace in terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14) – oggi i discepoli di Cristo pronunciano solo parole di pace. “In qualunque casa entriate – ha raccomandato Gesù – prima dite: Pace a questa casa” (Lc 10,5).
Le parole che Elisabetta rivolge a Maria: Benedetta tu fra le donne! non sono originali. Nell’AT ci sono due donne che vengono salutate allo stesso modo: Giaele (Gdc 5,24) e Giuditta (Gdt 13,18). Cos’avevano fatto di straordinario? Erano riuscite (impresa inaudita per delle donne!) ad annientare gli oppressori del loro popolo. La Bibbia non ricorda queste storie per approvare la guerra, ma solo per mostrare, con degli esempi comprensibili per la mentalità del tempo, come Dio sia solito realizzare gesta meravigliose servendosi di strumenti fragili e inadatti.
Applicando a Maria questa medesima frase, Luca afferma che anche lei appartiene alla categoria degli strumenti deboli e poveri con i quali Dio è solito compiere la sue opere di salvezza. Attraverso Maria egli ha realizzato l’avvenimento più straordinario della storia: ha donato agli uomini suo figlio.
Elisabetta continua: A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? (v.43). Anche questa frase è copiata dall’AT. E’ stata pronunciata da Davide in un’occasione molto solenne, quando fu trasportata a Gerusalemme l’arca dell’alleanza nella quale si riteneva fosse presente il Signore. Nell’accoglierla il re esclamò: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?” (2 Sam 6,9).
Ci sono anche altri particolari significativi che mettono la visita di Maria in parallelo con l’episodio dell’arca dell’alleanza: sia Maria che l’arca rimangono tre mesi in una casa della Giudea. L’arca viene ricevuta con danze, grida di gioia, canti di festa ed è sorgente di benedizioni per la famiglia che la accoglie (2 Sam 6,10-11) e Maria, entrando nella casa di Zaccaria, fa sobbalzare di gioia il piccolo Giovanni (che rappresenta tutto il popolo dell’AT che giubila per la venuta del Messia).
Risulta così abbastanza evidente che Luca intende presentare Maria come la nuova arca dell’alleanza. Da quando Dio ha scelto di farsi uomo, non abita più in costruzioni di pietra, in un tempio, in un luogo sacro, ma nel grembo di una donna. Il figlio di Maria è lo stesso Signore.
Ovunque giunge Maria – la nuova arca dell’alleanza – c’è un’esplosione di gioia: il Battista sussulta di felicità (v.41), Elisabetta grida la sua gioia per essere stata visitata dal Signore (v.42), i poveri esultano perché è arrivato il momento della loro liberazione (vv.46-48).
E’ la gioia che caratterizza i tempi messianici. La proverà Zaccaria che benedirà il Signore perché “ ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68); verrà annunciata dall’angelo ai pastori: “Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). Gioirà Simeone quando prenderà tra le braccia il bambino e contemplerà con i suoi occhi la “salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti” (Lc 2,29-32).
Accogliere il Signore che viene non significa rinunciare alla gioia, ma spalancare le porte alla vera gioia.
Maria è proclamata beata perché “ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (v.45). Quante promesse ha fatto Dio per bocca dei suoi profeti! Quando però queste hanno tardato a realizzarsi, gli uomini hanno cominciato a dubitare della fedeltà del Signore. Hanno pensato di aver frainteso o di essere stati ingannati. Hanno cominciato a riporre la loro fiducia nei loro ragionamenti, nei loro progetti, nelle loro scelte e sono andati incontro a sistematici fallimenti. Maria invece è beata perché si è fidata di Dio, ha coltivato la certezza che, malgrado tutte le apparenze contrarie, la parola del Signore si sarebbe compiuta.
Beata colei che ha creduto. E’ questa la prima beatitudine che si incontra nel Vangelo di Luca e – si noti – è formulata in terza persona (non: Beata tu…). Questo indica che la beatitudine non è riservata a Maria, ma va estesa a tutti coloro che si fidano della parola del Signore. Nel Vangelo di Giovanni questa stessa beatitudine si trova alla fine. Il Risorto la rivolge a Tommaso: “Beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20,29). La fede autentica – quella di cui dà prova Maria – non ha bisogno di visioni, di dimostrazioni, di verifiche. Si fonda sull’ascolto della Parola e si manifesta nell’adesione incondizionata a questa Parola.
Non è facile credere, specialmente quando viene chiesto di andare contro il “buon senso”. Ci vuole molto coraggio per credere che si realizzeranno le promesse fatte da Dio ai costruttori di pace, ai non violenti, a coloro che porgono l’altra guancia, a coloro che non si vendicano, a coloro che donano la vita per amore. Maria mostra che vale la pena fidarsi delle parole del Signore, sempre. “Beati coloro che – come lei ha fatto – ascoltano la parola di Dio e la custodiscono” (Lc 11,28).
Il brano evangelico si conclude con i primi versetti dell’inno di lode al Signore che Luca ha posto sulla bocca di Maria.
Maria è la prima che si rende conto delle meraviglie operate dal Signore e le canta.
Tutto comincia dallo sguardo che Dio le rivolge, uno sguardo completamente diverso da quello degli uomini. Questi guardano verso chi li può arricchire. Dio rivolge i suoi occhi su chi non conta nulla, è disprezzato, è infecondo, è improduttivo, è in condizioni penose. Giuditta lo pregava così: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati” (Gdt 9,11).
Maria ha capito che lo sguardo di Dio non è attratto dai meriti, dalla perfezione spirituale, ma dal bisogno dell’uomo. Si colloca così fra i poveri e si fa interprete dei loro sentimenti di gratitudine.