Lla Conferenza argentina dei religiosi e delle religiose (CONFAR) Argentina ha scelto come tema della sua riunione annuale del 2024 quello della “La vita religiosa, pellegrina della speranza sul cammino della pace”
Il prossimo Anno giubilare (2025) ha come centro la speranza. Papa Francesco fa risuonare questo forte richiamo alla testimonianza dei credenti che attendono con gioia la promessa di Dio. Su questa linea, la Conferenza argentina dei religiosi e delle religiose (CONFAR) Argentina ha scelto come tema della sua riunione annuale del 2024 quello della “La vita religiosa, pellegrina della speranza sul cammino della pace”. La consonanza è evidente e l’appello è pressante. Tuttavia, vale la pena di soffermarsi a rivedere quale terreno trova questa chiamata della Chiesa e della realtà, poiché sfida il cuore stesso della vita religiosa come segno profetico della presenza di Dio in un mondo assediato da guerre e discordie.
La realtà rivela ciò che c’è nel nostro cuore. Il Signore ci sonda non solo in modo personale, ma anche nel nostro cuore istituzionale e religioso, ci scuote come un corpo vivo, chiede di muoverci al ritmo del Signore, vagliare ciò che è autentico e scartare ciò che è superfluo.
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La realtà è piena della presenza di Dio. Lo sappiamo per fede, sappiamo anche che Dio chiama e che è presente in ogni persona. Tuttavia, sembra che questa presenza rimanga nascosta, sempre da scoprire, che le chiamate rispondano a voci più incantevoli che conquistano e affascinano, e che i cuori induriti di tante persone, che rivendicano come valido solo ciò che è proprio, mettano in discussione ciò che facilmente affermiamo per fede. Se Dio è nella realtà, perché la nostra gente piange tanto, perché i pellegrini religiosi si lamentano, perché ci sono conventi vuoti? È proprio questa chiamata alla speranza che ci mette alla prova. La nostra speranza è messa alla prova dalle tante grida della realtà che richiedono una presenza basata sulle promesse di Dio e non su trucchi spuri.
La realtà consente molte analisi e in diverse dimensioni: la molteplicità del lavoro di tanti, la mancanza di efficacia apostolica, la complessità della vita e del mondo giovanile, le opzioni per la periferia, ecc. La via da seguire non può essere quella di cercare colpevoli pastorali, né tanto meno accontentarsi di attenuanti sociologiche, come se il male di molti fosse una consolazione per noi.
Sappiamo che è compito di Dio consolare e allora nella vita religiosa, chiamata a essere pellegrina di speranza di fronte a un panorama spesso desolato, è la nostra speranza a essere messa alla prova.
La vita religiosa ha radici teologiche e richiede una risposta profondamente spirituale. Non ci sono ricette, né manuali, né tattiche pastorali, né corsi di formazione, che bastino da sé. La speranza si trasmette nella certezza di un’eredità da consegnare che porta a riconoscere che il futuro può essere ed è chiamato a essere migliore: più pieno, più umano, più pieno di Dio. La speranza è la virtù dell’apprendista, di colui che riconosce che Dio continua a fare nuove tutte le cose. È proprio per questo che siamo pellegrini/e.
Come dice Peguy parlando delle virtù teologiche preferite da Dio: “La fede che mi piace di più, dice Dio, è la speranza”. Infatti, si chiede Péguy: perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per cento giusti? E risponde: perché Dio vede realizzata la sua speranza; la sua speranza viene prima della nostra.
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Cosa trova il popolo di Dio nella vita religiosa, cosa trova in noi, cosa siamo noi per esso?
Affinché la speranza, animata e alimentata in tanti uomini e donne che cercano e hanno bisogno di Dio, non si esaurisca e non si disilluda prima di partire, ma si rafforzi e perseveri, è fondamentale che si consolidi un’autentica esperienza religiosa capace di fornire un quadro di appartenenza e di riferimento in cui essi possano riconoscersi e sostenersi. Ciò implica l’accettazione concreta dei legami reali della vita religiosa, credendo nelle promesse di Dio che si realizzano nella storia.
Da cosa o da chi dipendiamo per offrire speranza?
Il futuro della Chiesa dipende dal Signore che ci consola e ci conferma come pellegrini, spesso nostro malgrado. Siamo nelle sue mani. Tuttavia, è fondamentale che facciamo il possibile per assicurare la continuità del nostro lavoro apostolico al servizio del Regno: seminando pace, favorendo conciliazione e dialogo, costruendo ponti. Da quando il Signore ha stabilito la sua alleanza con Abramo, Isacco e tanti altri, la fecondità si manifesta come segno della promessa. Il profetismo della vita religiosa non è una questione sociologica o di analisi quantitativa, ma tocca la validità della propria vocazione e del proprio servizio ecclesiale, come anche la scelta decisiva della fecondità o della sterilità. Non c’è fecondità possibile se non lasciamo la strada aperta al Signore che dà la fecondità a chi vuole e allo stesso tempo implica la libertà di ciascuno come collaboratore nella sua vigna.
Come ci poniamo di fronte alla chiamata a essere pellegrini della speranza?
Se la speranza dipende dal Signore, e noi siamo lavoratori nella sua vigna, possiamo riconoscerci in questo campo a partire dalla chiamata di Dio stesso. Tra gli sforzi che la vita religiosa compie al servizio della Chiesa e quelli che compiamo per aiutare noi stessi, possiamo collocare il problema della speranza che viene messa alla prova in una realtà ostile.
Possiamo esaminarci davanti alla chiamata a sperare nella via della pace, per vedere perché il Signore della messe ci scuote nella speranza, confrontandoci con la durezza di una realtà che spesso sembra farsi beffa delle persone consacrate.
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Come possiamo esaminare il sarcasmo della realtà che minaccia la speranza e scoraggia la pace?
Riconosciamo che la consolazione spirituale dipende da Dio; e che ogni religioso e 0gni religiosa è una consolazione nella misura in cui è chiamato da Dio. Così ogni pellegrino/a è una benedizione e una possibilità di consolazione per tutta la Chiesa. Ci può aiutare recuperare le tre possibili cause che Sant’Ignazio utilizza per comprendere la lontananza dell’esperienza della consolazione, applicata alla realtà della chiamata alla speranza che la vita religiosa argentina incoraggia.
La prima tocca la libertà propria di ogni possibile pellegrino/a, libertà di cui possiamo riconoscerci tiepidi e negligenti. Così possiamo definirci pellegrini/e da poltrona, o forse pellegrini/e da aeroporto, ma senza movimento interiore. Gli altri due dipendono propriamente dal modo in cui il Signore si comporta con noi: da un lato, per mettere alla prova la nostra fedeltà e farci conoscere il meglio di noi stessi; dall’altro, a partire da questa esperienza per aiutarci a riconoscere che è la sua grazia e non le nostre strategie a portare frutto – a generare speranza e che esserne pellegrini/e nel mondo e nella Chiesa è puro dono. È la presenza di Dio che si realizza nella vita religiosa a sostenerci nella speranza lungo sentieri di pace anche in mezzo alle tribolazioni.
La speranza si cerca, ma è dono di Dio. Siamo chiamati a lavorare instancabilmente nel campo della messe, ma è sempre il Signore che dissemina speranza, e rafforza nella pace della missione. La vocazione è frutto della nostra libertà, ma soprattutto un dono del Signore. Tutto ciò indica che l’azione cristiana non è una mera opera umana, né un’esclusiva azione divina, ma il frutto di un’unione in cui l’inizio e la fine sono di Dio; ma allo stesso tempo siamo ciascuno/a con l’eredità che ci è stata affidata, animati dallo Spirito della missione che cerchiamo di portare avanti con speranza.
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Assumere di essere pellegrini/e della speranza come vita religiosa non significa solo moltiplicare i progetti pastorali, o le imprese vocazionali, né confidare nella sola generosità del Signore. Siamo chiamati a chiedere il desiderio di avere una discendenza e di crescere come il cielo e il mare, credendo nella validità e nella fecondità della nostra missione. È importante che sia la vita religiosa, incarnata in tanti uomini e donne, comunità e istituzioni, a chiedere al Signore la speranza, la stessa speranza che non delude, la speranza di Dio che chiamiamo Signore della storia in Gesù, quando nel nostro pellegrinaggio siamo testimoni dei “feriti e degli oppressi”.
Questa richiesta aumenterà la nostra comune consapevolezza del problema, e ci proteggerà dal trascurare il nostro sforzo di pellegrinaggio e dal cadere in banali illusioni, liberandoci anche dalla tentazione di credere che tutto dipenda solo dalla nostra volontà, frutto di un entusiasmo sempre provvisorio. Nel frattempo, questo pellegrinaggio ecclesiale e condiviso ci darà l’opportunità di mostrare a Dio il nostro ardore per il Vangelo che continua a riempire la realtà di vita, e ci chiama dal profondo della realtà a riconoscerci tutti noi lavoratori della vigna, pellegrini e pellegrine di speranza sul cammino della pace.
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