L’avvento del natale, è l’occasione propizia per tornare a ripensare, con l’animo disposto a capire, a mettere in dubbio le proprie sicurezze, a ridiscutere il proprio modo e le proprie forme di esprimere la fede.
L’avvento del natale, è l’occasione propizia per tornare a ripensare, con l’animo disposto a capire, a mettere in dubbio le proprie sicurezze, a ridiscutere il proprio modo e le proprie forme di esprimere la fede: la sfida è di essere contemporanei al proprio tempo; passato e futuro sono così strettamente uniti nella preoccupazione di accogliere nuove responsabilità e di accettare nuove sfide. Il futuro ha un cuore antico, diceva Carlo Levi. Senza memoria non c’è identità. Occorre dunque rielaborare nuove forme e nuovi simboli che traducano le esigenze spirituali dell’oggi, che propongano cammini di liberazione, facendosi carico delle lacerazioni e delle contraddizioni della contemporaneità.
Occorre riprendere quella “tavolozza” con la quale ridisegnare la vita non tanto dei bambini, quanto soprattutto degli adulti attraverso il dialogo e il confronto dove si accoglie e si comprende il passato per vivere il presente e sognare il futuro. Purtroppo si assiste all’avvento di alcuni nuovi barbari, che, con arroganza e saccenteria, affossano la “memoria” per ricreare tutto da soli ex nihilo; ma si tratta della nuova povertà chiamata “arroganza” perché la “memoria” è sempre stata la forza storica del futuro.
In questi contesti, il profeta biblico, quale uomo dello spirito, vede al di là dell’opaco, e ha una parola di consolazione per illuminare il suo “oggi”: diventa il costruttore del tempo attraverso la misericordia quale legge superiore alla giustizia, perché ogni conflitto nasce dal deprezzamento delle “cose dell’altro”, oltre che dalla mancanza di ascolto, che blocca il confronto dialogico. Solo una “ecclesia audiens” può essere una “ecclesia docens” direbbe Karl Barth.
La nostra tragedia è la mancanza di vera comunicazione. Il dialogo è il respiro della vita sociale: è il cibo del pluralismo. Dialogare, invece di “litigare” con il passato come in una sorta di “damnatio memoriae” da perseguire, può diventare la chiave per costruire nuovi orizzonti. La falsa mancanza di tempo, la fretta, la comoda superficialità di certi discorsi, la spudorata e volgare difesa delle proprie vedute costituiscono una grande sfida se si desidera vivere e non semplicemente esistere.
I luoghi e i tempi “critici” devono portare verso una convergenza di sforzi, ad opera di credenti e non credenti, per rianimare il senso dell’etica e del dovere diffondendo una nuova consapevolezza dei valori dello spirito, dei doni della cultura, dei benefici della solidarietà, che, soli, possono elevare la condizione umana.
Il deserto è il luogo dove maturano le grandi decisioni, dove si sono formati i profeti prima di dare avvio alla loro missione. Due sono stati i luoghi-simbolo scelti dai profeti per la loro azione: Gerusalemme, centro religioso e politico di Israele, dove portare un messaggio di riforma, e il deserto, luogo dove ritrovare un cammino di rinnovamento, luogo ideale dove compiere quel viaggio interiore di riappropriazione di se stessi e della propria storia, ma anche luogo di fuga e di contestazione, a volte, contro la stessa “clericale” Gerusalemme.
Il deserto diventa così una proposta per il tempo dell’avvento. E’ interessante notare come il termine ebraico che indica “deserto” (midbar) contiene anche quello che indica “parola” (dabar); e il dabar non è una semplice emissione di suoni o di semplici idee, ma è un evento. Occorre quindi “vigilare”, far silenzio attorno, mettere a tacere voci inutili, arrestare la dispersione mentale, meditare, riflettere: altrimenti le giornate, i mesi, gli anni passano nel vuoto.
E’ nel deserto che vengono poste le basi di una cultura sociale nuova che ha come norma nei rapporti reciproci “la compassione”. Il tecnicismo esasperato, l’autosufficienza, una economia di rendita, non frutto del proprio sudore, può portare a non “ricordare”, e all’affossamento della memoria storica. Quindi l’appello a tornare nel deserto dove ricostruire la propria esistenza e la propria credibilità; non è la soddisfazione del proprio ruolo gerarchico a far esistere, ma quel processo di conversione che porta a calzare i sandali della fraternità, anche se crocifissa. Il tempo dell’avvento diventa così un tempo monastico: i monaci sono dei guardiani del tempo, uomini dell’attesa e del desiderio, non del possesso o della soddisfazione.
Un antico racconto narra che un tale, dopo aver frequentato per un certo tempo una chiesa, domandò a un prete: «che cos’è, in verità, la comunità cristiana?». E quel saggio prete rispose: «è un luogo nel quale si cade e ci si rialza, e poi di nuovo si cade e di nuovo ci si rialza, e ancora si cade e ci si rialza». E il suo interlocutore gli chiese: «fino a quando?». Gli fu risposto: «fino a quando verrà il Signore che, trovandoci per terra, ma in procinto di rialzarci, ci prenderà per mano e ci rialzerà lui definitivamente per portarci con sé».
L’avvento, scrive Lisa Cremaschi della comunità di Bose, è il tempo per destarsi dal sonno, vegliare, ricominciare. Sappiamo che cadremo di nuovo, ma, con gli occhi rivolti al cielo, ogni volta cercheremo di rialzarci, confidando nel perdono del Signore e nell’attesa fiduciosa del suo ritorno.
E’ questo il linguaggio della speranza che scruta con gli occhi di una fede vacillante, quando non è spenta, cercando negli orizzonti della propria vita un volto albeggiante e rincuorante.
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