30 dicembre 2021
30 dic 2021

Benedite, non maledite: è la via della pace

di  Fernando Armellini, scj

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Il Vangelo di oggi è la continuazione del brano letto nella notte di Natale. Accanto alla culla di Gesù compaiono nuovamente i pastori (vv.16-17).

Seguendo l’annuncio ricevuto dal cielo, essi vanno a Betlemme e trovano Giuseppe, Maria e il bambino che giace nella mangiatoia.

Si noti: non trovano nulla di straordinario. Vedono solo un bambino con suo padre e sua madre. Eppure, in quell’essere debole, bisognoso di aiuto e di protezione, essi riconoscono il Salvatore. Non hanno bisogno di segni straordinari, non verificano miracoli e prodigi. I pastori rappresentano tutti i poveri, gli esclusi che, quasi per istinto, riconoscono nel bambino di Betlemme il Messia del Cielo.

Nelle raffigurazioni i pastori compaiono in genere in ginocchio davanti a Gesù. Ma il Vangelo non dice che essi si sono prostrati in adorazione, come hanno fatto i magi (Mt 2,11). Sono rimasti semplicemente ad osservare – stupiti, estasiati – l’opera meravigliosa che Dio aveva operato in loro favore, poi hanno annunciato ad altri la loro gioia e quanti li ascoltavano rimanevano essi pure meravigliati (v.18).

Nei primi capitoli del suo Vangelo, Luca sottolinea spesso lo stupore e la gioia incontenibile delle persone che si sentono coinvolte nel progetto di Dio. Elisabetta, scoprendo di essere incinta, ripete a tutti: “Ecco cos’ha fatto per me il Signore!” (Lc 1,25); Simeone e la profetessa Anna benedicono Dio che ha concesso loro di vedere la salvezza preparata per tutte le genti (Lc 2,30.38); anche Maria e Giuseppe rimangono meravigliati, stupefatti (Lc 2,33.48).

Tutti costoro hanno gli occhi e il cuore del bambino che accompagna con lo sguardo ogni gesto del padre, rimane rapito di fronte ad ogni suo gesto e sorride, sorride perché in tutto ciò che il padre fa coglie un segno del suo amore. “Il regno di Dio appartiene a chi è come loro – dirà un giorno Gesù – e chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).

La prima preoccupazione dei pastori non è di tipo etico: non si chiedono che cosa dovranno fare, quali correzioni dovranno apportare alla loro vita morale non sempre esemplare, quali peccati dovranno impegnarsi ad evitare… Si fermano a gioire per ciò che Dio ha fatto. Dopo, solo dopo essersi sentiti amati sono in grado di ascoltare i consigli, le proposte di vita nuova rivolti loro dal Padre. Solo così si verranno a trovare nella condizione giusta per accordargli fiducia.

Nella seconda parte del Vangelo (v.19) viene sottolineata la reazione di Maria al racconto dei pastori: “Conservava tutte queste cose nel suo cuore e le meditava” (letteralmente: le metteva insieme).

Luca non intende dire che Maria “teneva a mente” tutto ciò che accadeva, senza dimenticare alcun particolare. E nemmeno vuole – come qualcuno ha sostenuto – indicare in Maria la sua fonte di informazioni sull’infanzia di Gesù. La portata teologica della sua affermazione è ben maggiore. Egli dice che Maria metteva insieme i fatti, li collegava tra loro e ne sapeva cogliere il senso, ne scopriva il filo conduttore, contemplava il realizzarsi del progetto di Dio. Maria (ragazzina di dodici-tredici anni) non era superficiale, non si esaltava quando le cose andavano bene e non si abbatteva di fronte alle difficoltà. Meditava, osservava con occhio attento ogni avvenimento, per non lasciarsi condizionare dalle idee, dalle convinzioni, dalle tradizioni del suo popolo, per essere recettiva e preparata alle sorprese di Dio.

Una certa devozione mariana l’ha allontanata dal nostro mondo e dalla nostra condizione umana, dalle nostre angosce, dai nostri dubbi e incertezze, dalle nostre difficoltà a credere. L’ha avvolta in un nimbo di privilegi che – a seconda dei casi – l’hanno fatta ammirare o invidiare, ma non amare.

Luca la presenta nell’ottica giusta, come la sorella che ha compiuto un cammino di fede non diverso dal nostro.

Maria non capisce tutto fin dall’inizio: si stupisce di ciò che Simeone dice del bambino, è quasi colta di sorpresa (Lc 2,33). Si stupisce come rimarranno stupiti gli apostoli e tutto il popolo di fronte alle opere di Dio (Lc 9,43-45). Non comprende le parole di suo figlio che ha scelto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,50), come i Dodici avranno difficoltà a capire le parole del Maestro: “Non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (Lc 18,34).

Maria non capisce, ma osserva, ascolta, medita, riflette e, dopo la Pasqua (non prima!) capirà tutto, vedrà chiaramente il senso di ciò che è accaduto.

Luca la ripresenterà, per l’ultima volta, all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli. La collocherà al suo posto, nella comunità dei credenti: “Tutti erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Lei, la beata perché ha creduto (Lc 1,45).

Il Vangelo di oggi si conclude con il ricordo della circoncisione. Con questo rito Gesù entra ufficilmente a far parte del popolo d’Israele. Ma non è questa la ragione principale per cui Luca ricorda il fatto. E’ un altro il particolare che gli interessa, è il nome che viene dato al bambino, nome che non era stato scelto dai genitori, ma che era stato indicato direttamente dal Cielo.

Per i popoli dell’antico Oriente il nome non era solo un mezzo per indicare le persone, per distinguere gli animali, per identificare gli oggetti. Era molto di più, esprimeva la natura stessa delle cose, formava un tutt’uno con chi lo portava. Abigail dice di suo marito: “Egli è esattamente ciò che indica il suo nome. Si chiama Nabal (lett.: “folle”) ed in lui non c’è che follia” (1Sam 25,25). Essere chiamati con il nome di un altro voleva dire impersonarlo, renderlo presente, avere la sua stessa autorità, richiamarne la protezione (Dt 28,10).

Tenendo presente questo contesto culturale, siamo in grado di capire l’importanza che Luca attribuisce al nome dato al bambino. Si chiama Gesù che significa: Il Signore salva. Matteo spiega: fu chiamato così perché salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1,21).

Nel commento alla prima lettura dicevamo che il nome di Dio – YHWH – non poteva essere pronunciato. Ma senza nome si rimane nell’anonimato. Chi non conosce il nostro nome non può che instaurare un rapporto superficiale con noi.

Se Dio voleva entrare in dialogo con l’uomo doveva dirgli come voleva essere chiamato, doveva indicare il suo nome, rivelare la sua identità.

Lo ha fatto. Scegliendo il nome di suo Figlio, Dio ha detto chi egli è.

Ecco la sua identità: colui che salva, colui che non fa altro che salvare. Nei Vangeli questo nome è ripetuto per ben 566 volte, quasi a ricordarci che le immagini di Dio incompatibili con questo nome devono essere cancellate.

Ora comprendiamo la ragione per cui nell’AT Dio non permetteva che fosse pronunciato il suo nome: perché solo in Gesù ci avrebbe detto chi era.

E’ interessante notare chi sono, nel Vangelo di Luca, coloro che chiamano Gesù per nome. Non sono i santi, i giusti, i perfetti, ma solo gli emarginati, coloro che sono in balia delle forze del male. Sono gli indemoniati (Lc 4,34); i lebbrosi: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (Lc 17,13); il cieco: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!” (Lc 18,38) e il criminale che muore in croce accanto a lui: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc 23,42).

Lo ricorderà Pietro ai capi religiosi del suo popolo: “Nessun altro nome infatti sotto il cielo è stato concesso agli uomini, per il quale possano essere salvati”.

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