Discorso di apertura del Superiore Generale in occasione della IX Conferenza Generale
Tra le lingue latine, la lingua portoghese conserva bene il senso della domenica come primo giorno della settimana. Infatti, il lunedì, in portoghese, è il secondo giorno (segunda-feira). Il martedì è il terzo (terça-feira) e così via fino all’ultimo, che è il sabato. La domenica, quindi, è valorizzata come il giorno che dà origine e illumina la settimana.
Credo che questa concezione della settimana possa aiutarci a capire il nostro incontro di questi giorni. Infatti, solo ieri è iniziata la nostra Conferenza Generale. Lo abbiamo fatto celebrando la domenica, il giorno del Signore, la sua Pasqua.
Non so se succede anche a voi, ma quando è il mio turno di fare un’omelia, o un discorso come questo, trovo che mi preoccupo più di quello che sto per dire che di quello che ho sentito. Perciò permettetemi di invitarvi a vivere – e ad aiutarvi a vivere – questa Nona Conferenza Generale come una lectio divina prolungata e riposante del Vangelo che abbiamo ascoltato ieri, attenti a ciò che ci è stato proclamato nel nostro primo giorno: le beatitudini e le imprecazioni di Gesù a un grande gruppo di suoi discepoli e a una folla di gente, tra cui persone tormentate e malate (cfr. Lc 6,17.20-26).
Le nostre Costituzioni dicono che per continuare la comunità dei discepoli siamo chiamati proprio a “professare le Beatitudini“, che è il modo di associarci al dono di sé di Cristo al Padre. È un dono di sé che ci libera “per il vero amore secondo lo spirito delle Beatitudini” (cfr. Cst 40).
Quando Gesù li proclama, non parla astrattamente di felicità, ma guarda i volti davanti a lui e li chiama felici! Alcuni, o forse tutti, sono poveri, in lacrime o affamati. Gesù proclama anche queste stesse persone felici per qualcosa di molto unico: la loro relazione con il Figlio dell’Uomo, cioè con colui che vive ed esprime ciò che è veramente umano (cfr. Lc 6,22). Felici perché non si sono lasciati sedurre dall’inumano e dalle sue astuzie. Felici perché non si sono resi complici di ciò che inganna e finisce per disumanizzare.
Nel bisogno, nel pianto, nella fame e nella sofferenza che riesce a riconoscere in quella gente, Gesù si rende conto che anche lui, il Verbo incarnato, come loro, è fragile, limitato, debole e ha bisogno, come tutti, di condividere, di essere nutrito, di esprimersi, di essere accompagnato, di festeggiare e di essere aiutato.
Lo capisce dopo una lunga notte di preghiera e dopo aver incontrato lo sguardo di tanti volti che lo cercano e lo accompagnano in un luogo pianeggiante, uno spazio che abbatte le asimmetrie. È lì, e solo allora, che Gesù condivide ciò che ha imparato. Ha saputo interpretare che il pianto, la fame e il male sofferti da chi lo ha preceduto non sono un amen fatalista e rassegnato al potere evidente della morte, dell’ingiustizia e dell’indifferenza. Al contrario, Gesù sa riconoscere che nel pianto, nella fame e nella sofferenza che vede c’è un amore ardente per la vita e una passione irrefrenabile per la dignità umana. Questi uomini e queste donne non sono disposti a rinunciare né all’uno né all’altro. Non vogliono consegnarsi ad una morte sterile. Per questo la difendono anche con l’impotenza delle lacrime, che è l’unica cosa che spesso rimane. Ma la vita e la dignità umana non sono negoziabili. Sono il dono di Dio. Gesù, ammirando una convinzione così radicata, non può fare niente di meglio e di più umano che chiamarli ” beati ” perché è quello che hanno capito.
Quando il nostro fondatore, il Venerabile P. Dehon, ha affrontato la società del suo tempo, in comunione con la Chiesa che amava, di fronte a ciò che vedeva come un allontanamento dalla volontà di Dio, non si è lasciato trasportare da un catastrofismo scoraggiante. Attraverso il dono della sua fede, attraverso la sua stretta intimità con il Signore e la sua passione per il suo Regno, attraverso il suo anticonformismo e la sua perenne inquietudine, è rimasto certo che il mondo davanti a lui non era fuori dal Cuore di Dio. Il modo di agire di Dehon si riflette bene nelle nostre Costituzioni:
Questa adesione a Cristo,
che proviene dall’intimità del cuore,
deve realizzarsi in tutta la sua vita,
soprattutto nel suo apostolato,
caratterizzato da una estrema attenzione agli uomini,
specialmente ai più indifesi,
e dalla sollecitudine di rimediare attivamente
alle insufficienze pas torali della Chiesa del suo tempo. (Cst 5)
A questo punto, ciò che il XXIV Capitolo Generale ci ha detto nel suo messaggio finale non è senza preoccupazione: “Un aspetto che ci caratterizza come figli di Padre Dehon è la dimensione sociale del nostro carisma. Mentre osserviamo a volte una minore attenzione a questo aspetto, vogliamo sottolineare ancora una volta l’importanza di un coinvolgimento più intenso in questo settore (…)” (MF 24). È una forte provocazione, non per avere più o meno opere, ma per rivedere – e forse rifare – con Gesù e alla maniera di Gesù quel viaggio che ha fatto dal monte, dove pregava/adorava il Padre, alla pianura dove ha incontrato i suoi discepoli e una folla di gente. La montagna e la pianura sono i nostri spazi, il Padre e gli uomini e le donne di oggi la nostra scuola. Come Gesù e P. Dehon, che sappiamo amarli e riparare con loro, per loro e tra di loro per tanto amore non amato. E se non è così, “Guai a noi”.
I religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini (LG 31).