16 dicembre 2020
16 dic 2020

“Disponibili sempre, in differenti modi”

Intervista a p. Maggiorino Madella, scj, missionario in Angola. Alla soglia dei suoi 80 anni ripercorre alcune tappe di vita della sua esperienza di missionario, alla luce del vangelo.

di  Levi dos Anjos Ferreira, scj

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Era l’ottobre 1970 quando per la prima volta p. Maggiorino metteva piede in terra africana. Ora sono passati esattamente 50 anni da quella prima volta. Colpito dal COVID-19 insieme ad altri confratelli in Angola, è rientrato in Italia. L’esperienza di isolamento a casa e in ospedale è stato un test difficile, ma vissuto in clima di amore, nella certezza che Dio è amore per tutti. Lo abbiamo intervistato.

Maggiorino, come è nato il desiderio di essere missionario e perché hai scelto l´Africa?

Io non ho fatto la scelta di andare in Africa. Ho vissuto i primi anni della mia vita e la mia giovinezza sia in famiglia che in Congregazione in un clima formativo di apertura, di dialogo e accoglienza. Quando in terza teologia i superiori mi hanno chiesto che cosa volessi per il futuro, ho espresso il desiderio di andare all’estero. In totale disponibilità. La risposta è stata: Mozambico. L’Africa era per me nuova e grande, molto meno problematica rispetto a come ora la sto vedendo.

Conservo l’idea di Africa in modo positivo. Vi sono state nel passato molte divisioni e occupazioni, come del resto, in altre parti dell’Africa o in America latina. Ma fin dall’inizio sono stato aiutato a inserirmi in terra africana. Ho fatto uno stage di due anni a Madeira con l’obiettivo di lavorare in ambito pastorale. Siamo partiti in due per il Mozambico. Era l’ottobre 1970, esattamente 50 anni fa. Era il tempo coloniale, un tempo di avventura. Ma giunto in Mozambico sono stato inserito in tutt’altro settore: la formazione. Anche questa è disponibilità.

Quali caratteristiche della Chiesa africana ti hanno segnato più profondamente?

Io sono arrivato nel post-concilio. Eravamo già sensibilizzati dalla spinta conciliare del Vaticano II. In Mozambico ho trovato una chiesa tradizionale, intenta a creare strutture, con al centro la figura del missionario e del catechista. Abbiamo creato un fermento, una trasformazione graduale. La reazione non è stata  molto positiva e i missionari anziani non erano molto entusiasti del nostro modo di vedere le cose. Noi giovani missionari volevamo trasformare la chiesa in chiesa ministeriale, più dinamica; volevamo fare più formazione e rendere le persone più corresponsabili. Questo è stato un lavoro lento e graduale, che mi ha portato a lavorare anche a livello diocesano, secondo la mentalità del Vaticano II.

..ma in Africa le persone avevano già la fede…

L’Africano è una persona religiosa, istintivamente, profondamente ed estensivamente. Portare il Vangelo, evangelizzare è una altra cosa. Si tratta di innestare il cammino evangelico nella chiesa intesa come famiglia, dove tutti sono corresponsabili.

Si parla molto del fatto che l’Africa sarà il futuro della Chiesa, riguardo alle vocazioni. Che pensi?

Certamente l’Africa sta vivendo un dinamismo fortissimo a livello religioso e cristiano. Grazie anche alla dinamica postconciliare, la vita del vangelo impregna più profondamente le comunità cristiane. Ci sono vocazioni sia a livello cristiano che nei seminari, e questo fenomeno sta crescendo molto. Vi sono anche contraddizioni. Non è facile assimilare una novità fermentata dal Vangelo. Tuttavia penso che vi sarà un futuro grande per l’Africa, al servizio degli altri.

Bisogna tener presente che in questa dinamica il protagonista è lo Spirito Santo. Noi aiutiamo, collaboriamo, cerchiamo di condividere, perché il fermento del vangelo possa diventare la novità di vita. Però bisogna lasciare lo  spazio allo Spirito di Dio.

Sei rimasto in Mozambico 34 anni e poi sei andato in Angola

Ho vissuto 16 anni in Angola. La realtà è abbastanza diversa. Il Mozambico è rimasto più tradizionale, lento, chiuso. L’Angola, dopo l’unificazione si presenta un paese più aperto ad esperienze differenti.

Dove ti è piaciuto lavorare di più?

Ah..no.. Non si tratta di piacere ma di donarsi. Ho vissuto in molte comunità e in diversi settori. Ho cercato di essere disponibile e creativo. Non mi ritengo un genio, ma raccolgo e rilancio quanto ascolto. Ho voluto creare nel gruppo missionario dehoniano, qualcosa di nuovo che aiuti a cambiare.

Che consigli dai ai giovani religiosi che desiderano servire la Chiesa in Africa?

Parlare agli altri è sempre delicato. Bisogna essere se stessi, avere una autentica e forte identità umana e cristiana. Inoltre essere molto aperti. Tutto ciò esige umiltà, dedizione, capacità di camminare con gli altri, senza fare i superiori e maestri. Dialogare, dialogare e osare…

Si è parlato e si parla ancora di inculturazione. In Africa si mescolano le varie culture e tradizioni. Che puoi dirci?

La cultura ha valori e limiti. In ragione dei suoi valori essa deve esser ascoltata, rispettata, valorizzata, e si deve entrare in relazione costruttiva con essa. Vi sono anche limiti, come quelli linguistici. Io penso che bisogna agire con equilibrio, senza sentirci superiori. È Il Vangelo che incultura, che fa fermentare i valori locali.

Noi siamo collaboratori del Vangelo. Solo il Vangelo trasforma, e noi come collaboratori dobbiamo scomparire, e lasciarci trasformare.

L’inculturazione liturgica è una tappa: vi sono cose che funzionano altre no. L’importante è che gli africani diventino protagonisti della loro fede, della loro cultura secondo lo spirito del vangelo.

Noi dobbiamo essere disponibili sempre, in modi differenti.

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