05 ottobre 2024
05 ott 2024

Il Sinodo, i ministeri e i carismi

una riflessione sul significato dei termini "ministero" e "carisma" e sul loro rapporto.

di  Severino Dianich
Settimananews

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È vero che le ricorrenze di una parola in un testo possono non significare alcunché, però è anche vero che forniscono degli indizi. Nell’Instrumentum laboris per l’assemblea sinodale del 2023 il lemma “ministero” ricorreva 14 volte e solo 8 volte ricorreva il lemma “carisma”. Nell’IL della prossima sessione, “ministero” ricorre 70 volte e 27 volte ricorre “carisma”.

I ministeri

Sembra, quindi, si sia fatto un certo cammino che conduce a dare maggiore rilevanza, in ordine al desiderato sviluppo della sinodalità e della missione della Chiesa, sia ai singoli fedeli in quanto dotati ciascuno di suoi particolari carismi, sia, sul piano delle istituzioni, ai ministeri.

Considerata la vistosa presenza, nella conversazione sinodale, dei termini ministero e carisma, sembra utile proporre alla vigilia della nuova assemblea, una riflessione sul significato dei due termini e sul loro rapporto. Intendendo per ministero, però, non un qualsiasi servizio che un cristiano offre alla sua comunità, bensì l’esercizio di un incarico attribuito formalmente, in una forma o nell’altra, ad un fedele. Negli altri casi, infatti, si tratta semplicemente di un esercizio abituale di un proprio carisma da parte di un fedele. Se, quindi, vogliamo chiarire il rapporto fra i carismi e i ministeri, dobbiamo pensare ai ministeri come a incarichi che il fedele ha ricevuto.

Lungo il cammino sinodale troppo si è parlato di ministeri in rapporto alla qualificazione e valorizzazione delle persone che ne vengono incaricate, mentre per sua natura il ministero non è destinato a qualificare le persone, bensì a rispondere a un bisogno della comunità.

L’IL della prossima assemblea sinodale, registra al n. 15 che «le Conferenze episcopali… chiedono di esplorare ulteriori forme ministeriali e pastorali per dare migliore espressione ai carismi che lo Spirito effonde sulle donne in risposta alle esigenze pastorali del nostro tempo». È così che, molte volte, si è insistito, a proposito delle donne, sull’idea di dover loro attribuire, per valorizzarne l’operosità nella Chiesa, nuovi e particolari ministeri.

Ovviamente, si tratta di un riflesso condizionato del fatto che, a proposito di ministeri, alle donne è inibito il conferimento del ministero più alto, quello del sacramento dell’Ordine: poiché non possono diventare preti, a protezione della comune e uguale dignità di tutti i fedeli, bisogna dare alle donne nuovi e particolari ministeri.[1]

Un altro indizio di un uso deviante del termine è osservabile nel n. 30 dell’IL, dove ci si preoccupa di precisare che «i ministeri istituiti sono conferiti dal vescovo a uomini e donne, una sola volta nella vita». Se, infatti, si pensasse il ministero come risposta a un bisogno, si potrebbe anche affidare a un fedele un ministero da esercitare fino a quando la comunità ne avrà effettivamente bisogno. Utilizzando la categoria, più per qualificare le persone che per promuovere la risposta ad un bisogno della comunità, accade che, invece di promuovere, come si pretende, la «vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG 32), si perviene, al contrario, ad una reduplicazione ulteriore della differenziazione gerarchica nel popolo di Dio. Non più solo due categorie, clero e laici, ma tre: clero, ministri e fedeli comuni.

In conclusione, non sarà la moltiplicazione dei ministeri la via sulla quale si riuscirà a promuovere la soggettualità di tutti i fedeli nella missione della Chiesa.

I carismi

La via da percorrere, invece, è semplicemente quella della valorizzazione dei carismi, i quali non hanno bisogno di essere legittimati da alcuno, poiché provengono dallo Spirito Santo. Hanno bisogno che si aprano spazi adeguati al loro esercizio a servizio della comunità e ne venga riconosciuta nei fatti l’autorevolezza. In casi estremi, possono aver bisogno ne venga salvaguardata la dignità, delegittimando gli pseudocarismi, la zizzania seminata dal maligno nel campo di Dio.

I fedeli non hanno bisogno di essere formalmente deputati a operare nella missione della Chiesa, perché già lo sono, in forza del battesimo, e ciascuno lo è nei modi e nelle forme proprie dei particolari carismi di cui risulta dotato.

È necessario, quindi, che, nei processi del discernimento e delle decisioni, chi ha il carisma dell’autorità, consapevole di non possedere tutti i carismi, sappia ritrarsi, al fine di creare uno spazio nel quale i fedeli, che hanno altri carismi diversi dai suoi, vengano a determinare la decisione comune.

Il discorso sui carismi, non di rado, deve ancora liberarsi dall’idea che i doni dello Spirito debbano manifestarsi in forme straordinarie, mentre è necessario, al contrario, che si riconosca la presenza e l’azione dello Spirito dovunque un fedele rende un qualche servizio a qualcuno, come dice san Tommaso, il quale rende onore, più che ad altri, al carisma del contadino, perché senza l’esercizio del suo carisma nessuno potrebbe restare in vita (In 1Cor 12lectio 3).

Prima di tutto, infatti, il cristiano manifesta i suoi carismi nell’esercizio delle sue abilità lavorative e nelle competenze professionali, che si acquisiscono con l’esperienza e un determinato curriculum formativo.

La spiritualità cristiana ha sempre saputo trascendervi il puro riconoscimento dei meriti dell’uomo per rendere grazie allo Spirito di Dio. Il Catechismo non manca di riprendere la tradizionale dottrina delle «grazie di stato che accompagnano l’esercizio delle responsabilità della vita cristiana e dei ministeri in seno alla Chiesa» (n. 2004).

Dal punto di vista dell’operosità della Chiesa nell’attuazione della sua missione, tutti i carismi, nessuno escluso, hanno una loro parte da svolgere. Si pensi, concretamente, ai tanti fedeli che offrono le loro competenze lavorative ai missionari, contribuendo così a fare della proposta del vangelo l’offerta di una forma di vita e non di verità da credere.

Una Chiesa missionaria non può permettersi di ignorarlo, continuando ad affidare alla sola autorità dei pastori l’elaborazione e le decisioni delle sue linee di azione, senza giovarsi di tutti carismi presenti nella comunità. Lo farà in una seria pratica di sinodalità, nella quale chi ha il carisma dell’autorità non oserà imporlo negli ambiti per i quali non ha competenza, sui quali il suo carisma proprio non si estende, ma cederà il passo all’autorevolezza dei fedeli che si rivelano dotati dei carismi necessari nella res de qua agitur.

E il ministero di sposi, coniugi e genitori?

Non posso fare a meno, infine, di dire il mio stupore per il fatto che nell’IL, in tutto il gran parlare di ministeri, non si dica una parola su un ministero, di cui i fedeli vengono investiti da un sacramento, tanto quanto questo è vero per i ministri ordinati, cioè il ministero degli sposi, coniugi e genitori.

È un ambito nel quale il vuoto di sinodalità ha creato e continua a tenere in vita una situazione del tutto paradossale: preti e vescovi, tutti solo uomini, nella stragrande maggioranza celibi, insegnano agli sposi, con autorità magisteriale, come vivere da cristiani la vita di famiglia e guidano pastoralmente i fedeli nella vita coniugale e nell’opera di educazione dei figli, senza avere ricevuto dal loro sacramento quei carismi che invece gli sposi ricevono celebrando il sacramento del matrimonio.

È vero che i pastori ne attingono i valori dalla Parola di Dio, che essi sono deputati a predicare, però è anche vero che la Parola di Dio non si dà in pienezza solo nella lettura del testo, ma si dipana nello svolgersi dell’esperienza della vita.

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