07 novembre 2021
07 nov 2021

La situazione sulla rotta balcanica

Intervista a Daniele Bombardi, referente dei progetti di Caritas Italiana nel Balcani. Vive a Sarajevo.

di  Giordano Cavallari
Settimananews

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Caro Daniele, quali sono le ‘ultime’ dalla rotta balcanica?

Dalla Bosnia Herzegovina, specie dall’estremo lembo rivolto all’Europa, osserviamo, ormai da alcuni anni – almeno dal 2018 – l’alternanza dei movimenti, secondo le stagioni.

La situazione dai Paesi di provenienza e di transito, lungo tutta la rotta balcanica, non è affatto migliorata. Anzi. La crisi siriana e la crisi afgana, insieme a tutte le altre di cui questa rotta è la collezione, sono tutte ben attive. Perciò prevediamo flussi complessivi di profughi paragonabili – se non superiori – agli anni appena trascorsi. Le emergenze sono di nuovo dietro l’angolo.

Noti qualche conseguenza della crisi tra Bielorussia e Polonia?

Non posso dire di aver registrato conseguenze – quantomeno immediate – della crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia, nel verso della Bosnia Herzegovina. Forse i migranti stanno tentando di aprire di là una nuova rotta. Ma, come sappiamo, si fa di tutto per impedire, persino con controlli militari, barriere e veri e propri muri di acciaio e cemento.

Si stanno moltiplicando i muri coi quali – fuori e dentro Europa – una parte della umanità si sta arroccando dentro le proprie fortezze per impedire in tutti i modi il passaggio e l’ingresso di un’altra parte dell’umanità che viene dalle peggiori condizioni di vita.

Non a caso è venuta fuori in questi tempi la lettera di 12 Paesi europei che chiedono alla Unione di finanziare la costruzione di massicci mezzi fisici di impedimento. Il problema è certamente complesso. Andrebbe affrontato dalla politica in maniera ben altrimenti diversa e articolata. Mentre prevale la politica della forza e dunque dei “muri” che è ovviamente la peggiore che si possa dare.

La vicenda afghana dell’estate sta avendo già effetti anche sulla rotta balcanica?

Qui voglio dire chiaramente che la popolazione afghana è – da anni – la più presente sulla rotta balcanica! La ragione è – a noi osservatori – ben nota: l’Afghanistan non è mai stato un Paese sicuro, anche se in Europa, sino ad ora, per convenienza politica, si è continuato a dire che lo fosse.

In estate, con l’ingresso dei talebani a Kabul, abbiamo avuto semplicemente la conferma di quanto poco sicura fosse la condizione della popolazione – specie al di fuori delle maggiori città – e di quanto intensa, quindi, fosse e sia la spinta ad andarsene dall’Afghanistan.

Attualmente non osserviamo un incremento del numero di profughi afghani lungo la rotta balcanica, almeno più di quanto già ne fosse assai significativo il flusso. Può darsi che ciò avvenga nel prossimo futuro: sappiamo che servono diversi mesi dalla partenza dal Paese, prima di vedere le persone qui, nei Balcani.

La fretta di costruire altri muri potrebbe, almeno in parte, spiegarsi proprio, in questo modo: i Paesi europei che tanta solidarietà hanno manifestato in questi mesi per le donne e il popolo afghano, non hanno, di fatto, alcuna volontà di accogliere e di riconoscere lo status di rifugiati a numeri significativi di uomini, con intere famiglie, di nazionalità afghana.

I campi profughi della Bosnia Herzegovina sono perlomeno meglio attrezzati ad affrontare l’inverno?

Complessivamente il numero di posti nei campi è diminuito. Ed in tale situazione ci si appresta ad affrontare l’inverno. Due campi profughi nella città di confine di Bihac sono stati chiusi perché le strutture in cui erano collocati i migranti sono di proprietà privata, con tutti i costi che ne conseguivano.

Perciò in Bihac e nei pressi oggi parliamo di due campi: il primo ricavato, dal 2018, in un edificio allora fatiscente di proprietà dello stato, poi sistemato allo scopo, il secondo quello di Lipa a 20 chilometri dalla città, quello che ha fatto parlare di sé l’inverno scorso per le condizioni di degrado – senza acqua ed energia elettrica – e pure per lo scoppio dell’incendio delle tende sotto Natale.

Il “nuovo” campo di Lipa doveva essere ora inaugurato, all’inizio di settembre. A rilento stanno procedendo i lavori. Ma anche quando saranno terminati il campo non sarà in grado di compensare la perdita dei posti dei campi già chiusi. Resta poi la collocazione davvero infelice di Lipa, sui primi contrafforti montuosi, in una zona impervia, isolata dal mondo.

L’impegno della Caritas come si svilupperà?

Il nostro impegno prevedibilmente si svilupperà secondo quattro direttrici. Il primo impegno appunto sarà quello di cercare di non abbandonare nessuno in condizioni estreme: mi riferisco a quei vuoti di umanità, senza calore, senza nulla, a cui ho accennato.

Stiamo poi da tempo lavorando, d’intesa con le autorità e gli altri organismi, per organizzare una presenza di servizi strutturati dentro il “nuovo” campo di Lipa: è necessario garantire una distribuzione continuativa di generi di cui c’è sempre carenza, oltre ad offrire un minimo di ascolto e di assistenza psicologica alle persone.

Stiamo inoltre valutando come intervenire a favore delle povertà della comunità locale. È indubbio che tanti sentimenti non buoni nei confronti dei migranti nascono dalle difficoltà in cui vive una popolazione già molto provata da una storia di guerra, ancor recente, da cui non è ancora evidentemente uscita. Perciò, ad esempio, tutti i nostri acquisti per i migranti sono fatti in loco, presso le piccole cooperative che impiegano persone in gravi difficoltà sociali.

Come dicevo, ci stiamo preparando di nuovo al peggio. Voglia il Signore – con la generosità e con la carità di molte comunità cristiane e di molti – che così non sia.

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