L’Avvento è un tempo di preparazione al Natale, ma anche un tempo di grazia per crescere nella certezza che il Signore viene a noi in modo permanente. La celebrazione della sua prima venuta ci assicura la ferma speranza che arriverà sicuramente alla conclusione della storia, perché tutto è stato fatto da lui, con lui e per lui. Pertanto, è impensabile ammettere che Egli sia assente. La pedagogia usata in questo tempo speciale per favorire l’esperienza di questa verità, è che il nostro Dio si chiama Emmanuele e non è un Dio lontano e alieno. Oltre alla meditazione della Parola che proclama questa fede, troviamo alcuni personaggi che ci aiutano a fare questo cammino, perché essi stessi hanno camminato in questa direzione e quindi hanno un’autorità esemplare per indicarci la strada da seguire.
Nella seconda e terza domenica di Avvento, il Vangelo ci presenta la figura di Giovanni Battista, considerato l’ultimo dei profeti, perché in lui troviamo una sorta di ponte tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Nell’insegnamento e negli atteggiamenti di Giovanni Battista si manifesta la prova che Dio adempirà la promessa di visitare e liberare il suo popolo, inviando il suo Cristo dal quale il Precursore disse: “Dopo di me verrà uno più forte di me“. Mentre Giovanni Battista ha la missione di annunciare l’intervento liberatorio di Dio, solo il Messia ha la forza di realizzarlo, quindi è “più forte” del profeta. Anche riconoscendo la sua “inferiorità” nei confronti di Gesù: “Non sono degno di chinarmi per slacciargli i sandali“, Giovanni Battista è diverso da tutti gli altri profeti, compresi quelli che hanno annunciato esplicitamente la venuta del Messia (Isaia, Geremia), poiché indica Cristo già presente in mezzo al suo popolo.
D’altra parte, pur essendo il diretto precursore di Cristo, non prova invidia ponendosi al di sopra di tutti gli altri che prima di lui hanno dato voce a questo annuncio di Dio; al contrario fa parte della lunga tradizione veterotestamentaria: “Ecco, io mando il mio messaggero davanti a voi per preparare la strada“. San Marco, riferendosi a un testo del profeta Isaia (40,3), inserisce altri contesti dell’Antico Testamento, perché in questa citazione troviamo anche un’allusione all’Esodo (23,20) e al profeta Malachia (3,1). Giovanni è, infatti, la voce che grida, ma il contenuto della sua voce non è la sua parola originale, ma la Parola di Dio viva ed eterna. Da qui la grandezza della sua missione e, allo stesso tempo, serve da ispirazione per chi vuole vivere profondamente questo tempo d’Avvento, cioè offrire la propria voce affinché la Parola di Dio continui a risuonare in mezzo a noi anche oggi. Non è possibile parlare di Giovanni Battista senza tenere presente il suo intimo rapporto con Cristo. Una voce senza una parola perde il suo significato, può essere solo rumore; o anche una voce che non ha un vero contenuto può creare caos, disordine, tradire la propria ragione d’essere, cioè comunicare la verità che produce vita.
L’evangelista Marco, all’inizio del suo Vangelo con il verbo “Iniziare” porta il lettore alla prima espressione nella Scrittura: “In principio Dio creò il cielo e la terra… E Dio disse…” (Gen 1,1ss). È molto significativo che essi siano strettamente legati a ciò che Dio dice e a ciò che fa.
Pertanto, Marco, all’inizio del suo scritto, riafferma che la Buona Novella (parole e fatti) di Gesù Cristo è alla base di tutta la vita cristiana, così come l’azione e la Parola di Dio sono alla base della creazione. Non possiamo capire le prime parole del vangelo di Marco come una semplice indicazione che un testo sta cominciando: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo“. Questa traduzione può essere riduzionista, in greco troviamo la parola “arché” (principio, fondamento), quindi, più che indicare l’inizio di un’opera, siamo prima dell’annuncio di ciò che è il fondamento, la base del Vangelo. Nella comprensione delle comunità cristiane primitive il “vangelo” non è, in primo luogo, una scrittura, un libro. Ma la persona stessa di Gesù e il suo insegnamento, quindi, non possono separarli. Questa prima espressione di Marco riassume tutta la fede della comunità, poiché dice chi è Gesù (Messia e Figlio di Dio) e cosa ha fatto (ha annunciato la Buona Novella con le sue parole e la sua vita). Avendo messo in relazione il “Vangelo” (greco: eu-angeliov) con il profeta Isaia: “Come è scritto nel libro del profeta Isaia“, Marco chiarisce al suo lettore una chiave di lettura per capire perché questo annuncio è “una buona notizia”.
Nel contesto dell’esilio babilonese (587-538 a.C.), solo l’annuncio della liberazione dalla prigionia poteva essere una buona notizia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, di ciò che annuncia la buona novella (Vangelo) e annuncia la salvezza, di ciò che dice a Sion: ‘Il tuo Dio regna’” (Is 52,7). In quel momento la gente viveva un vero caos, una babele (confusione). La buona notizia per loro è stata l’annuncio di una nuova creazione, possibile solo con il ritorno a Gerusalemme, nella loro terra, nella ricostruzione del Tempio, come luogo di incontro con il Signore e nel recupero della loro identità di popolo di Dio.
Il Vangelo di Gesù Cristo è una buona notizia non solo perché annuncia i cambiamenti necessari per il ristabilimento del progetto di pace (Shalom) tra gli uomini, ma perché Gesù stesso realizza il disegno di Dio, annunciando la salvezza, il cui requisito fondamentale è la conversione, di cui Giovanni Battista era l’araldo quando “apparve nel deserto predicando un battesimo di conversione per i peccati“. Conversione che è un cambiamento di rotta, che si concretizza nell’abbandono delle attività che ci imprigionano lontano dall'”inizio” (arché) della nostra vita. Prepararsi al Natale del Signore significa convertire le nostre parole, spesso vuote, e dare la nostra voce a Colui che ha la Parola che può creare nuova vita.