Il riferimento cronologico con cui Luca inizia il suo racconto (vv.1-2) è preciso e importante perché permette di datare l’inizio della vita pubblica di Gesù. In Palestina l’anno comincia il 1° ottobre e allora l’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio si situa tra il 1° ottobre del 27 e il 30 settembre del 28 d.C., data che si accorda perfettamente con Gv 2,20.
Luca vuole che sia chiaro a tutti che non sta iniziando a raccontare una favola, un mito esoterico nato dalla fantasia e dall’immaginazione stravagante di un sognatore. Egli intende riferirsi a fatti concreti. L’intervento di Dio nella storia dell’umanità è avvenuto in un momento ed in un luogo ben definiti. Tuttavia, se obiettivo dell’evangelista fosse solo quello di indicare la data d’inizio della vita pubblica di Gesù, egli potrebbe fermarsi dopo questa prima indicazione. Invece prosegue e ne aggiunge altre: segnala i nomi dei governatori della Palestina e dei territori vicini e quelli dei sommi sacerdoti Anna e Caifa. In tutto 7 personaggi e per arrivare a questa cifra deve inserire anche Anna che sommo sacerdote non è più, da tredici anni, anche se continua a svolgere un ruolo importante.
Il numero 7 ha chiaramente un significato simbolico: quello della totalità. Insieme ai nomi e alle funzioni delle persone menzionate, indica che tutta la storia – sacra e profana, giudaica e pagana – è coinvolta nell’avvenimento che sta per essere raccontato. E’ un inizio che riguarda tutti i popoli e tutte le istituzioni civili e religiose.
Dopo l’introduzione storica, ecco entrare solennemente in scena il primo personaggio, il Battista: “La parola di Dio scese su Giovanni figlio di Zaccaria, nel deserto” (v.2). Sono le parole con cui nell’AT viene presentata la vocazione dei grandi profeti (Ger 1,1.4).
Tutto inizia nel deserto (v.2), un luogo carico di ricordi e di profonde risonanze emotive per gli Israeliti. Nel deserto essi hanno appreso molte lezioni: hanno imparato a staccarsi da tutto ciò che è superfluo perché costituisce un peso inutile da portare lungo il cammino, hanno imparato ad essere solidali e a condividere i loro beni con i fratelli, hanno imparato, soprattutto, a fidarsi di Dio.
Al tempo di Gesù, è nel deserto che si ritirano coloro che vogliono ripetere l’esperienza spirituale dei loro padri, coloro che vogliono sfuggire all’ipocrisia di una religione fatta di formalismi e di pratiche puramente esteriori. E’ nel deserto che vanno a vivere coloro che rifiutano la società corrotta, ingiusta ed oppressiva che si è installata nella loro terra. Fra queste persone “contestatrici” c’è anche Giovanni, figlio di Zaccaria (Lc 1,80).
Luca non dice nulla del suo modo di vestire, non parla del suo cibo, ma, da quanto ci riferisce Matteo (3,4), sappiamo che il Battista non usava la lunga tunica bianca dei sacerdoti del tempio, indossava un abito ruvido, come faceva il profeta Elia (2 Re 2,13-14); non mangiava i prodotti della città, si alimentava di ciò che il deserto spontaneamente offriva. Il Battista voleva essere e apparire straniero nella sua stessa terra; era un israelita, ma il suo comportamento lo distingueva nettamente dalle persone del suo popolo.
Come Giovanni, anche i cristiani, pur stando nel mondo, vivono la spiritualità del deserto. In un mondo in cui si considera normale il ricorso alla violenza, alla ritorsione e anche alla guerra essi pronunciano solo parole di pace e di perdono; in un mondo in cui si proclamano beati coloro che accumulano beni anche sfruttando i più deboli essi annunciano il servizio gratuito al povero e la condivisione; in un mondo in cui si ricerca il piacere a tutti i costi predicano la rinuncia e il dono di sé.
Dal deserto, luogo della sua vocazione, Giovanni si sposta verso la regione del Giordano, la percorre in lungo e in largo annunciando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. La sua predicazione – è bene anticiparlo subito per non equivocare certe sue espressioni – era un messaggio di gioia e di consolazione per tutti, come Luca ci terrà a sottolineare qualche versetto più avanti (Lc 3,18).
Nell’antichità il fiume Giordano – che attraversa una regione desolata – non ebbe mai alcuna importanza né come via di comunicazione (non è navigabile) né per l’irrigazione. Nessuna grande città è mai sorta lungo le sue sponde. La sua importanza è sempre stata quella di costituire un confine fra diversi popoli. Per prendere possesso della terra promessa, Israele, che veniva dall’Egitto, ha dovuto attraversarlo (Gs 3).
E’ questo territorio di confine che viene scelto dal Battista per la sua missione. Nel rito del battesimo che amministra egli vuole che ognuno ripeta il gesto di entrare, attraversando il Giordano, nella terra della libertà. Vuole preparare un popolo disposto ad accogliere la salvezza di Dio, pronto ad entrare nella vera Terra Promessa. Per questo chiede a tutti di prendere la decisione risoluta di cambiare radicalmente modo di pensare e di vivere.
Per chiarire meglio il compito che Giovanni è chiamato a svolgere, Luca cita una frase del profeta Isaia: “Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (v.4).
Non si può non notare una contraddizione con quanto abbiamo ascoltato nella prima lettura. Là Baruc affermava: “Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna, di colmare le valli e spianare la terra, perché Israele proceda sicuro” (Bar 5,7). Il suo era un canto fiducioso alla salvezza che Dio certamente avrebbe portato a compimento.
Nel libro degli oracoli del profeta Isaia invece si chiede agli Israeliti di preparare essi stessi la via del Signore. Il profeta rivolge loro l’invito ad impegnarsi per abbassare ogni colle e spianare i luoghi impervi. La salvezza viene da Dio ed è solo opera sua, ma può essere ottenuta solo da chi toglie gli ostacoli che si frappongono alla sua venuta.
I due profeti non si contraddicono, ma si completano. Il primo sottolinea l’opera irresistibile dell’amore di Dio. Egli – dice – riuscirà comunque, con il suo amore fedele, a ricondurre il suo popolo dalla terra di schiavitù alla libertà (Bar 5,7-9). E’ come un uomo follemente innamorato: nessun ostacolo è per lui insormontabile lungo il cammino che lo porta all’incontro con la donna amata. Non c’è monte elevato, non c’è valle profonda e oscura che possano impedirgli di realizzare il suo sogno di amore.
Il secondo profeta mette in risalto invece l’opera dell’uomo. E’ vero che il successo dell’amore di Dio è comunque assicurato, ma l’uomo può perdere tanti istanti, tanti giorni, tanti anni di felicità e di gioia lontano dal suo Signore. Per questo è urgente che egli apra il proprio cuore, che tolga presto tutti gli ostacoli che si frappongono all’incontro con lui.
A differenza degli altri evangelisti che si limitano a citare un versetto di Isaia, Luca continua la citazione: “…Ogni burrone sia riempito, ogni colle sia abbassato. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (vv.5-6). Se egli aggiunge anche questi versetti significa che gli stanno particolarmente a cuore. Vediamo di coglierne la ragione.
I burroni da riempire, i monti da appianare, i colli da abbassare, i passi tortuosi da rendere diritti e i luoghi impervi da spianare vanno senza dubbio intesi non in senso materiale, ma come simboli di un’altra realtà.
I monti e i colli rappresentano, nel linguaggio biblico, la superbia, l’alterigia, l’arroganza di chi vuole imporsi, dominare sugli altri (Cfr. Is 2,11-17). Il regno di Dio è incompatibile con questi atteggiamenti altezzosi e tracotanti, non può giungere là dove regna lo spirito competitivo, dove si cerca in tutti i modi di sopraffare gli altri, dove si accettano le caste, dove si pretendono inchini, prostrazioni, ossequi, riverenze. Nel mondo nuovo entra solo chi accoglie la logica opposta: il dono di sé, l’umile servizio reciproco, la ricerca dell’ultimo posto. “Chi è più grande deve diventare come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26).
Poi ci sono gli abissi da riempire. Sono le scandalose diseguaglianze economiche denunciate dai profeti.
I passi tortuosi infine sono le astuzie, le scelte insensate, le situazioni ingiuste che devono essere riviste e rese conformi alle vie di Dio. “Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore. Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” (Ez 18,23).
La conversione che il Battista richiede è radicale. Come sperare che l’uomo la possa attuare?
Nella traduzione italiana i verbi compaiono in forma iussiva (“sia riempito”, “sia abbassato”, “siano diritti”), come se si trattasse di un’ingiunzione.
Se è questo il senso delle parole del profeta è l’uomo che, mediante i propri sforzi e il proprio impegno, deve realizzare l’immane impresa. Così abbiamo solide ragioni per ritenere che non verrà mai portata a compimento.
In realtà, nel testo originale greco, i verbi sono al futuro passivo: “Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e colle sarà abbassato, e saranno le cose storte diritte…”.
Così – ammettiamolo con gioia! – il discorso cambia. Non si tratta di ordini impartiti da Dio, ma di una promessa che egli fa: il mondo basato su principi nuovi sorgerà, anche se agli uomini può sembrare un miraggio, e sarà opera mia.
L’ultima parte della citazione è particolarmente importante: Ogni carne vedrà la salvezza di Dio! (v.6).
Non “ogni uomo”, ma “ogni carne” – dice il testo originale. Carne, in senso biblico, non sono i muscoli, ma tutto l’uomo considerato nel suo aspetto di essere debole, fragile, esposto a tanti fallimenti. L’uomo è carne perché si ammala, commette errori, soffre solitudine e abbandono, invecchia e muore. Ecco ora la promessa: in ogni debolezza dell’uomo si manifesterà la salvezza di Dio; non vi sarà abisso di colpa tanto oscuro e profondo che non venga visitato e illuminato dal suo amore.
Luca colloca questa affermazione all’inizio del suo Vangelo, la sceglie quasi come titolo della sua opera perché contiene una solenne dichiarazione: Dio non riserva la sua salvezza ad alcune persone privilegiate, ma vuole che sia offerta a tutti. Nessuno sarà escluso.
È un’eco della profezia di Simeone: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti” (Lc 2,30-32).