Il Vangelo di oggi si apre con una constatazione significativa: “il popolo era in attesa”.
È facile da immaginare di che cosa: lo schiavo si aspettava la libertà, il povero una nuova condizione di vita, il bracciante sfruttato si attendeva giustizia, il malato la guarigione, la donna umiliata e violentata il recupero della dignità. Tutti aspiravano a un mondo nuovo, speravano che fra gli uomini sparissero gli abusi, le prevaricazioni, i soprusi e si instaurassero rapporti di pace.
Era soprattutto nel campo religioso che il popolo coltivava l’attesa, forse nemmeno del tutto cosciente, di un cambiamento.
Da trecento anni si era spenta la voce dei profeti, il Cielo si era chiuso e il silenzio di Dio era considerato una meritata punizione per i peccati commessi. Poste da parte le immagini del Dio alleato fedele, padre affettuoso, tenero sposo, le guide spirituali, da secoli, avevano cominciato a presentare il Signore soprattutto come legislatore severo e intransigente. La religione non comunicava gioia, ma inquietudine, paura, angoscia. Una vita così era insostenibile, qualcosa doveva cambiare! Ecco le ragioni dell’attesa alla quale il Battista doveva dare una risposta.
Quando si vive in situazioni insopportabili e si desidera ardentemente che qualcosa cambi ci si affida a chiunque susciti qualche speranza e ci si può anche ingannare nell’identificazione del liberatore. Il popolo d’Israele che – come dirà un giorno Gesù – era un gregge senza pastore (Mc 6,34) si attende dal Signore una guida e pensa che il Battista sia il Messia. Giovanni li corregge: non sono io – dice – sta per venire uno più forte di me. Egli vi battezzerà con “Spirito Santo e fuoco”. Ha in mano il “ventilabro” e separerà il grano dalla pula; questa verrà bruciata, senza pietà, in un “fuoco inestinguibile” (Lc 3,17). Poco prima ha detto che la scure è già posta alla radice degli alberi (Lc 3,9). Il giudizio di Dio è dunque imminente e sarà severo.
Il linguaggio del Battista è duro e minaccioso, in sintonia con quello impiegato da alcuni profeti. Malachia ha parlato di un “giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno venendo li incendierà” (Ml 3,19). Anche Isaia ha minacciato: “Profondo e largo è il rogo, fuoco e legna abbondano, lo accenderà, come torrente di zolfo, il soffio del Signore” (Is 30,33).
Non si può non notare il contrasto stridente fra queste immagini terrificanti e le espressioni dolci e delicate con cui, nella prima lettura, è stata presentata la figura del “servo del Signore”. Là non si parlava di violenza, di intolleranza, di aggressione, di fuoco distruttore, ma di pazienza, di rispetto nei confronti di tutti, di aiuto a chi è in difficoltà, di recupero della canna spezzata, di speranza per chi è come un lucignolo fumigante.
Le parole del Battista riflettono la mentalità di un popolo che le guide spirituali hanno educato alla paura di Dio. Come tutti, anch’egli riteneva che l’ingiustizia e il peccato avessero raggiunto il colmo e che fosse imminente l’intervento risolutore di Dio contro i malvagi.
Aveva ragione: con la venuta di Cristo per il male non ci sarebbe stato più scampo. Ma su come Dio avrebbe purificato il mondo dal peccato, sul tipo di fuoco che egli avrebbe usato… forse il Battista si ingannava. Non sappiamo cosa egli esattamente avesse in mente, conosciamo invece molto bene come Gesù ha agito: non ha aggredito i peccatori, si è seduto a cena con loro; non si è allontanato dai lebbrosi, li ha toccati; non ha condannato l’adultera, l’ha difesa contro chi la giudicava e disprezzava; non ha scacciato la peccatrice, si è lasciato accarezzare e baciare da lei.
Con Gesù si è chiusa definitivamente l’epoca in cui Dio è stato immaginato come un sovrano severo, giustiziere, intransigente. Egli ha rivelato il vero volto di Dio, il Dio che salva soltanto. Con la sua vita ha proiettato una luce anche sulle immagini impressionanti usate dal Battista e dai profeti e ne ha dato la chiave di lettura. Era vero quanto essi avevano affermato: Dio avrebbe inviato il suo fuoco sulla terra, ma non per distruggere i suoi figli (anche se malvagi), bensì per bruciare, per far scomparire dal cuore di ognuno ogni forma di malvagità.
Questo pensiero ci introduce nella seconda parte del Vangelo di oggi (vv. 21-22).
A prima vista il racconto del battesimo di Gesù sembra identico a quello degli altri evangelisti, in realtà presenta alcuni particolari diversi e significativi.
Anzitutto, a differenza degli altri, Luca non descrive il battesimo di Gesù, ma ne parla come di un fatto già avvenuto (v. 21). Chiaramente, per lui il centro del racconto non è il battesimo in sé, ma quanto accade subito dopo: l’apertura dei cieli, la discesa dello Spirito e, soprattutto, la voce dal cielo.
Siamo all’inizio della vita pubblica e l’evangelista vuole che i cristiani delle sue comunità – che sono già stati battezzati – leggano il Vangelo come rivolto direttamente a loro. Li invita a iniziare il percorso, a muovere i loro passi ancora incerti dietro il Maestro che è stato battezzato come loro e che cammina al loro fianco.
Poi, solo Luca nota che Gesù è stato immerso nell’acqua del Giordano assieme a tutto il popolo. Egli si è confuso in mezzo alla gente. Questo particolare viene sottolineato perché, fin dall’inizio della sua missione, Gesù si presenta come colui che si mette a fianco dei peccatori: non li giudica, non li sgrida, non li condanna, non li disprezza. Ne condivide la condizione di schiavitù e con loro percorre il cammino che porta alla libertà.
Il terzo particolare che compare solo in Luca è il richiamo alla preghiera. Gesù riceve lo Spirito mentre è in preghiera. L’insistenza sulla preghiera è una delle caratteristiche di Luca. È la prima volta che egli ci presenta Gesù in dialogo con il Padre, in seguito lo farà un’altra decina di volte.
Gesù non prega per darci il buon esempio. Egli ha bisogno, come noi, di scoprire qual è la volontà del Padre, ha bisogno di ricevere la sua luce e la sua forza per compiere in ogni momento ciò che a lui è gradito. Ha bisogno di pregare ora che è agli inizi della sua missione, pregherà prima della scelta degli apostoli (Lc 6,12), pregherà prima della sua passione (Lc 22,41) e pregherà, soprattutto, sulla croce (Lc 23,34.46) nel momento della prova più difficile. Per mantenersi fedele al Padre, ha avuto bisogno di pregare.
Dopo questa introduzione originale, anche Luca, come Matteo e Marco, descrive la scena successiva con tre immagini: l’apertura dei cieli, la colomba, la voce dal cielo. Non sta raccontando fatti prodigiosi realmente accaduti, ma impiega immagini ben comprensibili ai suoi lettori. Il loro significato non è difficile da cogliere anche per noi oggi.
Cominciamo dall’apertura del cielo.
Non si tratta di un’informazione meteorologica (fra le nubi dense e cupe sarebbe filtrato un luminoso e insperato raggio di sole). Se così fosse Luca ci avrebbe riferito un dettaglio davvero banale e di nessun interesse per la nostra fede. E’ ben altro ciò che egli vuole dire ai suoi lettori. Egli sta alludendo in modo chiaro a un testo dell’AT a loro ben noto.
Negli ultimi secoli prima di Cristo, il popolo d’Israele ebbe la sensazione che il cielo si fosse chiuso. Dio, sdegnato a causa dei peccati e delle infedeltà del suo popolo, si era ritirato nel suo mondo, aveva smesso di inviare i profeti e sembrava avesse rotto ogni dialogo con l’uomo. I pii israeliti si chiedevano: quando finirà questo silenzio che tanto ci angoscia? Il Signore non tornerà a parlarci, non ci mostrerà più il suo volto sereno, come nei tempi antichi? E lo invocavano così: “Signore, tu sei nostro Padre; noi siamo l’argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani. Non adirarti troppo, non ricordarti per sempre delle nostre iniquità… Ah, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 64,7-8; 63,19).
Dicendo che, con l’inizio della vita pubblica di Gesù, i cieli si sono squarciati, Luca dà ai suoi lettori una grande, lieta notizia: Dio ha esaudito la supplica del suo popolo, ha spalancato il Cielo e non lo richiuderà mai più. E’ finita per sempre l’inimicizia fra il Cielo e la terra. La porta della casa del Padre rimarrà eternamente aperta per accogliere ogni figlio che desideri entrare. Qualcuno forse arriverà molto tardi, ma nessuno sarà escluso.
La seconda immagine è quella della colomba.
Luca non dice che una colomba scese dal cielo (sarebbe anche questo un dettaglio banale e superfluo), ma che lo Spirito santo scese “come una colomba”.
Il Battista ricorda certamente che dal cielo non è scesa solo la manna, ma anche l’acqua distruttrice del diluvio (Gen 7,12) e il fuoco e lo zolfo che hanno incenerito Sodoma e Gomorra (Gen 19,24). Egli probabilmente si aspetta la venuta dello Spirito come un “fuoco” divoratore dei malvagi. Su Gesù lo Spirito si posa invece come una “colomba”. E’ tutto tenerezza, affetto, bontà. Mosso dallo Spirito, Gesù si accosterà ai peccatori sempre con la dolcezza e l’amabilità della colomba.
La colomba era anche il simbolo dell’attaccamento al proprio nido. Se l’evangelista ha in mente anche questo richiamo, allora vuole dirci che lo Spirito cerca Gesù come la colomba cerca il suo nido. Gesù è il tempio dove lo Spirito trova la sua stabile dimora.
La terza immagine, la voce dal cielo.
E’ un’espressione usata frequentemente dai rabbini quando vogliono introdurre un’affermazione da attribuire a Dio. Nel nostro racconto ha lo scopo di presentare pubblicamente, in nome di Dio, chi è Gesù.
Per comprendere l’importanza del messaggio di questa voce si deve tenere presente che il brano è stato composto dopo gli avvenimenti della Pasqua e vuole rispondere all’enigma suscitato nei discepoli dalla morte ignominiosa del Maestro. Ai loro occhi egli è apparso come lo sconfitto, come colui che Dio ha rifiutato ed abbandonato. I nemici – custodi e garanti della purezza della fede del loro popolo – lo hanno giudicato un bestemmiatore. Dio ha condiviso questa condanna?
Ai cristiani delle sue comunità l’evangelista presenta il giudizio del Signore con una frase che fa riferimento a tre testi dell’AT.
– “Tu sei il mio figlio”. E’ una citazione del Sal 2,7. Nella cultura semitica il termine figlio non indica solo la generazione biologica, ma significa anche che una persona si comporta come suo padre. Presentando Gesù come “suo figlio”, Dio garantisce di riconoscersi in lui, nelle sue parole, nei suoi gesti, nelle sue opere, nel gesto supremo del suo amore, nel dono della vita. Per conoscere il Padre gli uomini non devono far altro che guardare a questo figlio.
– Il “prediletto”. Il riferimento è al racconto di Abramo, disposto ad offrire per amore il suo figlio unico, Isacco (Gen 22,2.12.16). Gesù non è un re o un profeta come gli altri, è l’unico.
– “In te mi sono compiaciuto”. Conosciamo già quest’espressione perché si trova nel primo versetto della lettura di oggi (Is 42,1). Dio dichiara che è Gesù il “servo” di cui ha parlato il profeta, è lui il “servo” inviato a “instaurare il diritto e la giustizia” nel mondo intero. Per portare a compimento questa missione offrirà la vita.
La “voce dal cielo” ribalta dunque il giudizio pronunciato dagli uomini e smentisce le attese messianiche del popolo d’Israele. Un Messia umiliato, sconfitto, giustiziato era inconcepibile per la cultura giudaica del tempo. Quando Pietro, nella casa del sommo sacerdote, giurerà di non conoscere quell’uomo, in fondo dirà la verità: non poteva riconoscere in lui il Messia, non assomigliava in nulla al salvatore d’Israele che gli era stato narrato nella catechesi dei rabbini.
L’adempimento delle profezie da parte di Dio è stato troppo sorprendente, per tutti, anche per il Battista.